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E’ morto Indro Montanelli

Il ricordo del grande giornalista in un'intervista di Enzo Biagi, altro grande maestro del giornalismo

23 luglio 2001

Il ricordo del grande giornalista in un intervista di Enzo Biagi, altro grande maestro del giornalismo

«Che cosa provo? Del dolore, del rimpianto e anche un senso di vuoto. Ci mancherà». Sono le prime parole di Enzo Biagi, asciutte e prive di retorica, dopo aver appreso la notizia della morte di Indro Montanelli. Due grandi giornalisti, che condividevano i favori del pubblico ma anche un’amicizia lunga più di mezzo secolo, cementata da un profondo rispetto reciproco al di là delle possibili divergenze. Negli studi della Rai, dove parla di Montanelli a tutti i telegiornali, Biagi non si stanca di raccontare l’ultima visita alla clinica Madonnina di Milano.
«E’ stato due giorni fa. Si è girato dalla mia parte e mi ha rivolto solo un sorriso. Pareva molto spossato».
E prima, durante il ricovero, vi siete parlati? Qual era il suo stato d’animo?
«Andavo a trovarlo tutti i giorni, mattino e sera, e gli dicevo sempre: "Guarda che è un’ispezione per vedere come ti comporti, non è una visita". Ma lui era sconsolato. In un momento in cui eravamo soli mi ha detto: "Non sarebbe stata meglio una cosa fulminea?". E io: "Se potessimo scegliere...».
Che cosa ha rappresentato Indro per il Biagi giornalista?
«Un maestro dal quale mi dividevano le idee, ma sempre un maestro. Io venivo dal Partito d’azione, lui dal liberalismo, ma la sua destra, quella di Prezzolini, non aveva nulla di mercantile».
Ma dal punto di vista della professione giornalistica, in che cosa è stato un maestro?
«Lui sapeva come farsi capire dal "lattaio dell’Ohio", come gli avevano detto in America, da quello di Monza o di Reggio Calabria. Il lettore era il suo vero padrone. E quando vedeva lo strapotere di certi personaggi, si è sempre battuto cercando di rappresentare la voce di quelli che non potevano parlare».
Qual è stato, però, il segreto della sua grande popolarità presso ogni ceto di pubblico?
«Senza dubbio, la chiarezza. Ha sempre pensato all’edicola e mai alle stanze del potere».
Eppure il suo giornalismo di impegno civile lo ha portato a battersi su fronti diversi, con avversari e compagni di strada differenti. Qualcuno lo ha anche accusato di incoerenza...
«Il destino di un uomo è il suo carattere: e difficilmente si sfugge agli effetti di quelli che pomposamente si chiamano gli eventi. Ma lui non ha mai avuto un dittatore preferito. Lo dimostrò persino nel suo rapporto con Mussolini: quando sbagliava, sapeva ricredersi. E non è da tutti».
Poco fa, rispondendo a Raiuno, ha detto che Montanelli è da porre fra i grandi del Novecento italiano. In che senso?
«Perché lui, l’Italia del Novecento l’ha raccontata tutta nelle sue storture, da grande cronista, a cominciare dalle imprese del ventesimo battaglione eritreo nella guerra d’Etiopia. E non ha smesso di raccontarla fino agli ultimi giorni. Ai colleghi più giovani, poi, ha insegnato che si può anche sbagliare con l’attenuante della buona fede, ma che bisogna anche essere capaci di chiedere scusa. Lui lo ha fatto».
Quando vi siete conosciuti? E’ stata un’amicizia senza incrinature?
«Fu nel 1945: a Bologna facevo un settimanale, Cronache , dove parlammo di un suo libro. E lui capitò lì. Incrinature? Quando Montanelli lasciò il Corriere , nel ’73, ci vedemmo. Quel giorno, dopo le sue dure critiche alla linea della proprietà, lo passai con Indro. Non la pensavo come lui, ma lo rispettavo perché era coerente con il suo carattere e con la storia della sua generazione. Fra noi c’erano vent’anni».
A Fucecchio, durante i festeggiamenti per i suoi novant'anni, Montanelli parlò di se stesso come portavoce di una borghesia che in Italia non aveva mai trovato una vera e propria espressione politica. Come mai, però, le sue parole arrivavano con la stessa forza ai più diversi ceti sociali?
«Certo lui aveva un’idea della borghesia che forse trovò espressione solo nei signori del Borghese da Longanesi ad Ansaldo, ma la sua bravura nel comunicare andava al di là delle convinzioni di questo o quell’altro. Fra l’altro, Montanelli è stato anche un maestro di divulgazione».
Si riferisce alla sua opera di storico?
«Anche. Di certo la sua storia non è stata condizionata dal problema del guadagno. Era un grande autore e ciò ha comportato grandi vantaggi anche per lui. Comunque, nel raccontare la storia, ha portato in Italia una tradizione d’origine anglosassone. Ha voluto e saputo scrivere per tutti rispettando sempre l’aspetto scientifico».
Anche se, come abbiamo visto, Montanelli si batté su vari fronti, rimase sempre fedele al suo carattere. All’esterno dava l’impressione dell’uomo tutto di un pezzo. Era così o nascondeva una segreta fragilità?
«Una volta Leo Longanesi così disse di lui: "Stava in mezzo agli altri per sentirsi anche più solo". E aveva ragione. Indro era un uomo solissimo. Qualcuno ha detto che era triste, ma non è vero: un conto è triste, un conto è depresso. Montanelli aveva voglia di ridere, ci siamo fatti tante risate insieme, grazie al senso della beffa proprio dei toscani. Da Benvenuto Cellini in poi, ce l’hanno tutti».
Al di là del valore professionale, da tutti riconosciuto, amici ed avversari, quali valori positivi ha riscontrato nell’uomo Montanelli?
«Una straordinaria generosità, una grande attenzione verso tutto e tutti, una capacità di forti slanci. Forse, nella sua toscanità, poteva apparire rude. Invece era un grandissimo gentleman. In più era disinteressato, capace di battersi con coerenza senza legami materiali».
Ma insomma, aveva o non aveva un cattivo carattere?
«Non direi. Aveva solo un grande rispetto di sé e voleva mettersi continuamente in gioco».
Tralasciando le critiche pubbliche o le polemiche che ha suscitato lungo quasi un secolo, qual era il suo maggior difetto, a livello personale?
«Non so trovargli un difetto vero e proprio. Se ci penso, direi: quello di non aver avuto dei figli. Forse avrebbe avuto modo di considerare il mondo anche da un altro punto di vista».
Vuol dire che sarebbe stato meno pessimista?
«Non era proprio un pessimista. Per lui poteva valere la frase di Kennedy: sono "un idealista senza illusioni"».
In conclusione, come colloca Montanelli nella storia del giornalismo di casa nostra?
«Indro si è affermato in un periodo di grande concorrenza: bastano i nomi di Vergani, Malaparte, Barzini, Emanuelli, Piovene. Fu una primadonna fra tante primedonne? Non saprei. Certo aveva la coscienza del suo valore, ma non la faceva pesare nella vita di tutti i giorni. Non faceva vita di società anche perché soffriva d’insonnia: niente salotti, insomma. Solo per un momento ha dovuto scendere a qualche compromesso mondano con la moglie Colette...»
Lei è stato per lunghi anni una grande firma dello stesso quotidiano di Montanelli. Malgrado i divorzi e i ritorni, si può parlare di legame storico fra Indro e il Corriere ?
«Montanelli è stato il Corriere . Ha fatto anche altri giornali ma la sua vera patria è sempre stata in via Solferino».
Due anni fa a Fucecchio, Enzo Biagi era fra coloro che, venuti da tutta Italia, festeggiavano i novant’anni di Montanelli, il quale rifiutava l’idea di una gloria «postuma». Citando Ojetti, Indro disse: «Credere di restare celebri presso i posteri è pia illusione». Un disinteresse radicale, quindi, che guardava oltre la morte.

Fonte: Corriere della Sera

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23 luglio 2001
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