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Gli scontri a Lhasa? Colpa della ''cricca de Dalai Lama''. Questa l'accusa del premier cinese Wen Jiabao

18 marzo 2008

La questione tibetana è lunga, articolata e da sempre scandita dal dolore, dai soprusi e dalla violenza. Una questione troppo complessa per essere trattata sinteticamente, ma che oggi è bene riassumere comunque, visto la rilevanza che in questi giorni gli ennesimi scontri tra popolazione tibetana ed esercito cinese hanno raggiunto. Scontri che hanno lasciato a terra morti tibetani e che distorcono fortemente i lineamenti della ''nuova'' Cina. 

Il Tibet, fino al 1950 era uno stato sovrano e indipendente governato dalla massima autorità religiosa del Buddhismo tibetano, il Dalai Lama. In quell'anno l'Esercito di liberazione popolare, facente capo alla Repubblica Popolare Cinese guidata da Mao Zedong, invase il Tibet, adducendo, come motivazioni verso l'esterno, il fatto che il Tibet, secoli prima, era stato conquistato dai Mongoli e appartenevano allo stesso impero.
Nel 1956 il Governo cinese costituì il Comitato Preparatorio per la Regione Autonoma del Tibet. Tenzin Gyatso (XIV Dalai Lama) presiedeva il comitato, ma si rese conto che gli altri appartenenti erano molto dipendenti dalle decisioni del governo centrale. L'anno dopo, nel '57 scoppiò una rivolta nel Tibet orientale che si estese a Lhasa nel 1959. Nello stesso anno l'Esercito di liberazione popolare schiacciò la rivolta e costrinse il Dalai Lama alla fuga e il 17 marzo lasciò il Palazzo del Norbulingka travestito da soldato e scappò in India dove costituì il Governo tibetano in esilio.
Il 1° settembre 1965 nacque ufficialmente la Regione Autonoma del Tibet . In concordanza con gli articoli 111 e 112 della Costituzione della Repubblica Popolare Cinese e seguendo l'esempio dell'Unione Sovietica, il governatore doveva essere di etnia tibetana, controllato dal locale segretario del Partito Comunista Cinese, generalmente un cinese di etnia Han.
La Cina governò quello che rimaneva del Tibet con la forza e la repressione. Con la Rivoluzione Culturale vennero uccisi circa 1,2 milioni di tibetani, 6.254 monasteri distrutti, circa 100.000 tibetani nei campi di lavoro e deforestazione indiscriminata...

Cinquantanni dopo la prima rivolta, nel Tibet, e più precisamente a Lhasa, i monaci tibetani sono ritornati a scontrarsi con l'esercito cinese, e oggi come allora si ripete lo stesso "genocidio culturale".

Secondo il primo ministro cinese Wen Jiabao, gli incidenti e le violenze dei giorni scorsi in Tibet sono state "premeditate e organizzate dalla cricca del Dalai Lama". Wen Jiabao ha sottolineato che i rivoltosi hanno compiuto "saccheggi e incendi" e hanno ucciso "in modo estremamente crudele cittadini innocenti”. “Il loro comportamento dimostra che tutte le loro affermazioni sul fatto che chiedono l'autonomia e non l'indipendenza non sono altro che falsità", ha aggiunto Jiabao. Il premier ha inoltre respinto, definendola una "menzogna", l'accusa rivolta dal Dalai Lama a Pechino di compiere in Tibet un "genocidio culturale". Il capo del governo cinese ha però ammesso per la prima volta che la rivolta tibetana si è estesa ad altre zone del Paese, e ha aggiunto che "se il Dalai Lama rinuncia all'indipendenza e accetta che il Tibet e Taiwan sono parte integrale della Cina, allora la porta per il dialogo è aperta. Questa è da tempo la nostra posizione e non è cambiata".
Wen Jiabao ha inoltre sostenuto che i disordini sono diretti principalmente a "sabotare le Olimpiadi", che "da molte generazioni sono il sogno del popolo cinese. Dobbiamo portare avanti lo spirito olimpico e non politicizzare le Olimpiadi".

Oggi il Dalai Lama ha detto di essere pronto a dimettersi da leader tibetano se la situzione andrà fuori controllo in Tibet, e ha negato le accuse delle Cina, secondo cui starebbe incitando la violenza. "Se le cose andranno fuori controllo la mia sola opzione è dimettermi completamente", ha detto il Dalai Lama, durante una conferenza stampa nella sua base Dharamsala, nell'India settentrionale.
Il Dalai Lama, in esilio in India dal 1959, ha negato poi le accuse cinesi. "Indagate approfonditamente, se volete iniziare le indagini da qui sarete i benvenuti", ha detto. "Controllate i nostri vari uffici... Possono esaminare il mio polso, le mie urine, il mio sgabello, tutto...".
Il premio Nobel per la pace ha detto di volere l'autonomia del Tibet dalla Cina ma non l'indipendenza istantanea.
La protesta anti-Cina guidata dai monaci a Lhasa, che si è fatta particolarmente grave venerdì scorso, è la più grande in quasi 20 anni.

Carmela, Athisha e Giulia: tre studenti italiani a Lhasa - Saranno trasferiti oggi all'aeroporto per imbarcarsi sul primo volo per Katmandu, i tre studenti italiani bloccati a Lhasa da mercoledì scorso al campus della "Tibet University". Carmela, 24 anni, napoletana, Athisha, 23 anni, di origine indiana ma cittadino italiano residente a Venezia, e Giulia, 24 anni, di Enna, tutti studenti dell'Università Orientale di Napoli, si trovano in Tibet per completare il corso di studi.
Da giorni le famiglie non avevano più notizie di loro fino a quando, sabato sera, l'università tibetana ha messo a disposizione il telefono per dieci minuti al giorno per potere chiamare i propri cari. I giovani hanno detto di stare bene e di attendere che la polizia li scorti fino all'aeroporto per potere raggiungere Katmandu. Per il resto, silenzio o quasi, perché probabilmente la comunicazione dei tre studenti con l'Italia era "censurata". Si è capito, ascoltando le parole di Carmela, che la partenza da Lhasa è "obbligata": "Ci cacciano dal campus. Fosse per me, resterei a completare il ciclo di studi. Ma temo che non sarà più possibile", dice la studentessa napoletana. "Io sono tranquilla. Il console italiano ci ha assicurato che non corriamo alcun pericolo e che entro i prossimi due giorni sarà possibile uscire di qui, e eventualmente tornare a casa. Se la situazione si normalizzerà però io resterò in Tibet fino a luglio. L'ho detto anche ai miei...". "Certo che sono preoccupati - aggiunge - ma non voglio scappare, io voglio studiare il tibetano".

Diversa la posizione di Giulia, 24 anni, di Enna: "Lascerò appena possibile il Paese. Qui è un inferno, di cui fra l'altro noi non sappiamo niente. Dal campus non si può uscire, e nel campus non si può entrare. Sono venuta qui per imparare la lingua, per vivere con i tibetani, e oggi è evidente che questo non si può più fare".
Giulia ha raccontato anche di un avventuroso ritorno dall'India nei giorni scorsi: "Non sapevo quale situazione avrei trovato. Rientravo, via Kathmandu, dalle vacanze invernali, ma non sono potuta tornare subito al campus: il centro storico della città era blindato. Sono stata accolta dal consolato nepalese, che mi ha ospitato per alcune ore. Poi mi hanno riportato qui, e non sono più potuta uscita". Cosa ha visto? "Solo una città piena di fumo, e di soldati cinesi". Poi ha aggiunto un paradosso, "non siamo noi le persone più indicate per raccontare quello che sta succedendo: i nostri amici tibetani, che vivono fuori da qui, non sono rintracciabili. I cellulari sono saltati".

[Foto tratte da www.freetibet.org]

- La questione tibetana (Limes)

 

 

 

 

 

 

 

 

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18 marzo 2008
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