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PERCHE' E' SUCCESSO?!

A Genova è morto un giovane di 23 anni, ucciso da una pallottola

21 luglio 2001

Non capiamo il senso di tutto questo.
Siamo sgomenti per quanto è successo.

Affidiamo alle parole di Ezio Mauro, direttore di Repubblica, un commento tristemente lucido su questa tragedia.

Se la violenza travolge la modernità

E' MORTO un ragazzo, nella battaglia del G8. Per una democrazia, questo è l'unico vero fatto che conta, alla fine di una giornata che ha visto i Grandi della terra e l'universo sparso dei movimenti contrari alla globalizzazione separati e distanti, eppure contrapposti e radicalmente divisi come non era mai avvenuto in passato. Una giornata di buona volontà da parte dei leader delle grandi potenze, trascinati dalla forza simbolica e mediatica della contestazione a occuparsi della povertà e delle malattie che colpiscono il Sud della terra, fino a stanziare per la prima volta 1,2 miliardi di dollari per la lotta contro l'Aids.

Ma quell'impegno è ritornato a sembrare retorico, i 22 milioni di morti dell'Aids sono tornati a sembrare lontani a metà pomeriggio, quando è morto quel ragazzo di ventitré anni, ucciso mentre manifestava la sua protesta per le strade di una grande città italiana, che da oggi diventa il simbolo dell'ultima tragedia della modernità: quasi un limite, una frontiera oltre la quale la civiltà moderna non può andare, perché qui ha visto in faccia le sue più drammatiche contraddizioni.

E' tragico e contraddittorio, infatti, vedere le grandi potenze del mondo incapaci di garantire insieme e pacificamente la sede di un loro confronto, e di un grande raduno convocato per contestare quel confronto. Ed è drammatico constatare che le regole della democrazia si infrangono un'altra volta in questo dopoguerra, come se non bastassero più, come se rivelassero una loro insufficienza a governare tutte le contraddizioni della modernità. L'Italia ha provato a tenere insieme a Genova i leader del G8 e i loro contestatori. L'operazione è fallita.

Genova ha conosciuto una giornata non di dura contestazione, ma di vera e propria violenza, con gruppi minoritari ma fortemente agguerriti di oppositori venuti da tutto il mondo che hanno attaccato la città e la polizia, travolgendo immediatamente le strategie non violente del movimento antiglobalizzazione. Il risultato è un teatro di guerriglia urbana, la prima guerriglia metropolitana in questa Italia del nuovo secolo. Una scena a cui non eravamo più abituati, dove la protesta dei gruppi non violenti è stata oscurata e risucchiata da un vortice di scontri con auto rovesciate, cassonetti dell'immondizia bruciati, lanci di pietre e bottiglie molotov, più di 172 feriti e un carabiniere all'ospedale in condizioni molto gravi. I distinguo sono importanti dal punto di vista della responsabilità, e sono indispensabili moralmente, dunque nessuno dovrà trascinare il movimento nato due anni fa a Seattle nella semplificazione del teppismo, annullando le sue ragioni e anche i suoi ideali. Ma non c'è dubbio che ieri la violenza ha segnato Genova mentre segnava per sempre l'appuntamento del G8, condannandolo a cambiare profondamente, oppure a scomparire. Quel ragazzo steso per terra con la testa in mezzo al sangue, e attorno gli agenti che fanno inutilmente quadrato, come se non volessero far riprendere la scena dalle telecamere, è l'icona terribile dell'ultima modernità.

Ventitrè anni richiamato in piazza dall'ultimo richiamo possibile per i ragazzi di oggi, questa sirena contro l'incubo globalizzante che risuona anche dopo la morte delle ideologie, la stanchezza della politica, il deperimento dell'associazionismo. Ventitrè anni, portati ieri pomeriggio in mezzo agli scontri assurdi e violenti, a correre dietro o davanti una camionetta dei carabinieri, a svoltare in una via che si chiama Caffa per entrare dentro l'ultima fotografia: con in mano un estintore da lanciare contro quella stessa camionetta che è bloccata laggiù in fondo e che i ragazzi hanno circondato. Nella stessa fotografia c'è una mano che spunta dal camion dei carabinieri, impugna una pistola, la punta contro di lui. Chissà se il ragazzo l'ha vista. I suoi compagni attorno a lui hanno sentito il colpo, l'hanno guardato mentre cadeva, con un buco sotto l'occhio sinistro. Poi c'è voluto del tempo perché arrivasse una telecamera, a riprendere la scena della morte. C'è voluto molto tempo perché arrivasse persino un lenzuolo.

L'autopsia, naturalmente, dirà cos'è successo davvero. E il ministro dell'Interno andrà a riferire in Parlamento, com'è doveroso, anche se ci andrà un po' tardi, lunedì. Ma quel che è successo sembra chiaro, e alcune domande si possono - e forse si devono - fare subito, evitando ogni cinica speculazione di parte. La violenza urbana è sempre difficile da controllare, e tanto più in una città come Genova: ma come mai i gruppi più violenti ed estremi del movimento, sigle come i Black Bloc ben noti dopo Goteborg, hanno potuto entrare indisturbati nel nostro Paese che aveva ripristinato per l'occasione i controlli di frontiera? Come hanno potuto organizzarsi liberamente in una città presidiata in ogni angolo? Dove hanno preso il loro armamentario? Come hanno potuto fin dal mattino muoversi come padroni? In uno scenario come questo, si capisce che due ragazzi carabinieri circondati si sentano assediati, si vedano minacciati, e possano perdere la testa. Ma cosa vuol dire perdere la testa, per le forze dell'ordine di un Paese democratico? Perché quella mano con la pistola non mirava in alto, nell'aria? Quanti lacrimogeni sono stati sparati ad altezza d'uomo, come documentano le telecamere? Dopo i fatti tragici di Goteborg, il governo aveva dato o no indicazione di non usare le armi? Quali istruzioni sono state impartite durante l'addestramento degli agenti in vista del G8? Queste domande sono indispensabili di fronte ad un evento senza precedenti, come la morte violenta di un ragazzo durante gli scontri con le forze dell'ordine, in occasione di un G8. Com'è indispensabile, dall'altra parte del campo, che il movimento anti-globalizzazione rifletta su quanto è accaduto, se vuole salvare se stesso e le sue ragioni, evitando che siano risucchiate da un precipizio di morte. Per un movimento politico, sia pure tra le virgolette della modernità, c'è un unico rapporto possibile con il tema della violenza, ed è un rapporto di radicale estraneità, di antagonismo ricercato, perseguito, dichiarato con forza. Ogni ambiguità, ogni furbizia, ogni debolezza diventano pericolosissime. In politica la violenza non si misura a dosi e quantità, non conosce fini nobili che la giustifichino, né contesti che la assolvano: è sempre e comunque letale per tutti, le vittime naturalmente ma anche gli attori e persino gli spettatori se non sanno leggerla e separarsene subito, nettamente e per sempre. Soprattutto in Italia, dove il terrorismo è stata una tragedia della nostra contemporaneità, tutto ciò dovrebbe essere chiaro.

Resta il destino del G8. Ma soprattutto, resta il simbolo del G8. Adesso che lo choc di Genova colpisce direttamente la nostra democrazia, dovremo finalmente guardare dentro quel simbolo, per decifrarne tutto il potere, e poi per decidere che farne. Quei leader potentissimi, ma confinati dentro una zona rossa separata dal popolo su cui fondano il consenso, dalla vita e dalla città vera, hanno toccato con mano il cortocircuito tra la loro potenza e l'impotenza della loro politica. Hanno visto in faccia davvero per la prima volta la politica-judo, utilizzata da antagonisti infinitamente più deboli, che usano la forza dell'avversario per rovesciarlo e metterlo a terra. Hanno capito che devono occuparsi dell'"altro", del mondo assente, di ciò che è piccolo e insignificante nella scala del potere, ma hanno anche intuito che una politica della globalizzazione non si improvvisa, diventa facilmente retorica, buonismo, filantropia, cioè un'altra cosa. Hanno deciso che dopo Genova non ci sarà mai più un G8 con questa liturgia e questo rito, perché i riflettori che li inquadrano in questa sede fanno troppa luce, fatalmente, sul lato oscuro e nascosto della modernità. I Grandi hanno cioè compreso tante cose, meno una: l'opportunità assoluta di sospendere il rito del loro vertice mondiale davanti al ragazzo morto, congiungendo per una volta i due estremi del G8, che restano invece inconciliabili, e nemici. Dovrebbe essere il movimento anti-globalizzazione, oggi, a trasformare la contestazione in un lutto col rifiuto di ogni violenza, una protesta muta per le piazze e le strade di Genova.

E' chiaro che non ci sarà un'altra Genova, comunque. Ma questa "cosa" che ha radunato gente da ogni Paese, che ha dato forma all'unico movimento oggi visibile, che appassiona, spaventa e divide, non sparirà nascondendo la bandiera mondializzante del G8. Ci sono ragioni se i ragazzi e anche tanti che ragazzi non sono hanno raggiunto Genova. L'inquietudine dell'esclusione, la percezione del rischio che si accompagna alla modernità, la lontananza delle istituzioni, il linguaggio vuoto della politica, un bisogno di rappresentanza. Tutto ciò, se cucito insieme come la parola 'globalizzazione' riesce a cucire, forma una piattaforma spontanea e inconsapevole di nuova politica, di delusione e di disponibilità, che qualcuno dovrà prima o poi raccogliere. C'è, dietro e per la prima volta, la presa di coscienza che il mercato non sta estendendo automaticamente la concezione della democrazia occidentale là dove arriva, nei nuovi mondi. Globalizziamo tutto, compresi gli stili di vita e i loro simboli, ma non i diritti che pure contrassegnano la civiltà europea. In più, importiamo nuove debolezze e fragilità inattese, per una democrazia che aveva inventato lo stato sociale al centro del grande patto tra il lavoro e l'economia di mercato, e oggi vede il lavoro ridursi, il capitalismo spostarsi e il welfare contrarsi, rompendo quel contratto che aveva retto questo modello di vita e anche la democrazia reale, concreta, quotidiana dei nostri Paesi.

E' a tutto questo che dobbiamo dare una risposta, dopo il ragazzo morto al G8. Una risposta che è di maggiore democrazia, di nuove garanzie al di là dello Stato territoriale, di istituzioni insieme più grandi e più accorciate, comunque riconosciute, finalmente accettate. Verrebbe da dire, e non è una cosa da poco: bisogna costruire una democrazia transnazionale, una regola democratica per la globalizzazione, tra mercato, istituzioni e società, coinvolgendo quegli attori non autorizzati che stanno cominciando ad affollare la scena. Non è poco, ma tutto il resto è più rischioso, più ostile, in questa sfida globale che unisce modernità e primitività: come i sassi e il monopattino che ieri impazzavano insieme per le strade di Genova.

Ezio Mauro, 21 luglio 2001, Repubblica
 

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21 luglio 2001
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