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Perché furono assolti Mori e Obinu

Depositate le motivazioni della sentenza che a luglio ha assolto i militari dell'Arma dall'accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia

16 ottobre 2013

"Scelte operative discutibili, astrattamente idonee a compromettere il buon esito di una operazione che avrebbe potuto procurare la cattura di Bernardo Provenzano": così i giudici della quarta sezione del tribunale di Palermo definiscono le indagini finalizzate alla cattura del capomafia di Corleone svolte dagli ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu. Entrambi sono stati accusati di favoreggiamento alla mafia proprio per avere bloccato il blitz che, ad ottobre del 1995, secondo la Procura, avrebbe potuto portare alla cattura del padrino.
Il tribunale, che li ha assolti, ha depositato lunedì le motivazioni della sentenza che, pur avendo escluso la responsabilità degli imputati, bolla certe loro condotte.

"Si deve, però, rilevare che, benché non manchino aspetti che sono rimasti opachi - concludono i giudici - la compiuta disamina delle risultanze processuali non ha consentito di ritenere adeguatamente provato - ad di là di ogni ragionevole dubbio, come richiede la legge - che le scelte operative in questione, giuste o errate, siano state dettate dalla deliberata volontà degli imputati di salvaguardare la latitanza di Bernardo Provenzano o di ostacolarne la cattura".
Infatti, "il quadro probatorio emerso dalla articolatissima istruzione dibattimentale si presenta spesso, nei vari segmenti che lo compongono, incerto, talora confuso ed anche contraddittorio. Esso è formato da indicazioni frammentarie che in molti casi possono essere ricondotte ad una sintesi solo con il ricorso ad elaborati ragionamenti: tale metodo, però, non sempre garantisce il raggiungimento di risultati sicuri".

"Resta senza riscontro la eventualità che Paolo Borsellino abbia in qualche modo manifestato la sua opposizione ad una trattativa in corso fra esponenti delle Istituzioni statali e associati a Cosa Nostra". Proseguono i giudici palermitani. Per il collegio non ci sarebbero le prove che il magistrato, come ha sostenuto la Procura, sia stato ucciso perché aveva scoperto che pezzi delle istituzioni, attraverso i carabinieri del Ros, avevano iniziato un dialogo prima con il boss Totò Riina, poi con Bernardo Provenzano, attraverso l'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. "Da ultimo, si deve rilevare che alcuni dati sembrano indicare che la strage di via D'Amelio - scrivono - fosse già programmata da tempo e non sia stata frutto di una decisione estemporanea, dettata da contingenze del momento".

Massimo Ciancimino è un "soggetto incline alle chiacchiere e alle vanterie" e di "attendibilità precaria": così bollano il superteste della trattativa Stato-mafia i giudici palermitani. Ciancimino era teste dell'accusa anche nel processo ai due militari e ha raccontato degli incontri tra il padre, Vito, ex sindaco mafioso di Palermo, e Mori e Obinu. Incontri finalizzati, per la Procura, a instaurare una trattativa tra lo Stato e la mafia. I giudici sottolineano le innumerevoli contraddizioni della testimonianza di Ciancimino jr e valutano con molta cautela i documenti da lui consegnati ai pm. Nella sentenza si dice che "la inclinazione di Ciancimino ad operare sugli scritti dati ai pm realizzando fotocopie parziali o veri e propri collage risulta incontrovertibilmente da alcuni documenti acquisiti e perfino da alcune, esplicite ammissioni del predetto". Nella sentenza i giudici hanno trasmesso gli atti alla procura perché valuti se procedere per falsa testimonianza a carico del teste.

[Informazioni tratte da LiveSicilia.it, Corriere del Mezzogiorno]

- "Il fatto non costituisce reato" (Guidasicilia.it, 18/07/13)

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16 ottobre 2013
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