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Quarant'anni fa...

Ricorre oggi il 40° anniversario del terremoto che nel giro di una notte cambiò il volto della Valle del Belice

15 gennaio 2008

La notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 un violento terremoto colpì una vasta area della Sicilia occidentale compresa tra le province di Palermo, Agrigento e Trapani. Una scossa del nono grado della scala Mercalli, seguita da tante altre violente scosse di assestamento, rasero al suolo interi paesi (tra i 15 centri colpiti rimasero completamente distrutti: Gibellina, Poggioreale, Salaparuta, Montevago), facendo 231 vittime, un migliaio di feriti e lasciando senza tetto 70 mila persone. Il sisma della Valle del Belice e le sue conseguenze hanno rappresentato, in fatto di calamità naturali, uno dei primi, e tristemente celebri, "casi italiani" nella storia del dopoguerra: l'impreparazione e l'iniziale abbandono da parte dello Stato, i ritardi nella ricostruzione, le popolazioni costrette all'immigrazione, l'orrore delle baracche per coloro che restavano.

Il 15 gennaio, dato che la zona interessata non era considerata critica dal punto di vista sismico, il terremoto venne trascurato nella sua entità, tant'è che molti quotidiani dello stesso giorno, riportarono la notizia di pochi feriti e qualche casa lesionata.
La realtà si fece terribile allorquando i primi soccorsi arrivarono in prossimità del triangolo dell'epicentro, idealmente formatosi tra Gibellina, Salaparuta e Poggioreale: le strade erano praticamente state risucchiate dalla terra e molti collegamenti con i paesi colpiti furono praticamente impossibili sino alla notte tra il 15 e 16 gennaio, ovvero ventiquattro ore dopo il violento sisma.
Tutto ciò creò ancora più confusione in quelli che erano soccorsi già poco coordinati e frammentari.
Nei soccorsi furono impegnati più di mille Vigili del fuoco, la Croce Rossa e l'Esercito. Un pilota di uno degli aerei impegnati nella ricognizione della zona dichiarò di aver visto "uno spettacolo da bomba atomica... ho volato su un inferno".

Egisto Corradi, inviato del Corriere della Sera, parlando della zona di Santa Ninfa, descrisse minuziosamente lo stato di assoluta precarietà in cui si svolsero i soccorsi nei primi giorni successivi al sisma: "La pioggia ha ridotto la piana ad un acquitrino nel quale si affonda fino alle caviglie... Macchine ed autocarri si sono impantanati sia tra le tende che lungo la strada, continuamente bloccata da ingorghi". Nell'articolo Corradi metteva in evidenza la mancanza di coordinamento anche in merito alla distribuzione degli aiuti alimentari che arrivavano da tutta Italia.
Di certo, il terremoto del 1968 mise drammaticamente a nudo lo stato di arretratezza in cui vivevano quelle zone della Sicila occidentale, in primo luogo nella stessa fatiscenza costruttiva delle abitazioni in tufo, crollate senza scampo sotto i colpi sussultori del sisma. Le popolazioni di quei paesi erano composte in gran parte da vecchi, donne e bambini, visto che i giovani e gli uomini erano già da tempo emigrati per questioni di lavoro. Questo dato rappresentava il disagio sociale che lo Stato conosceva e trascurava, così come trascurò le conseguenze del sisma.

Fino a oggi nel Belice sono stati spesi circa 2 miliardi di euro. A quarantanni dal terremoto, la ricostruzione non è ancora terminata. In attesa di una definitiva ricostruzione, si pensa a non dimenticare quella drammatica notte. Sono tante le iniziative organizzate per non dimenticare le ferite del Belice. Saranno coinvolti venti comuni delle province di Palermo, Agrigento e Trapani. All'iniziativa parteciperanno tutti i paesi che furono danneggiati dal terremoto: Gibellina, Salemi, Vita, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Santa Ninfa e Calatafimi-Segesta.
Le vittime del terremoto si ricorderanno rispettando minuti di silenzio e con lunghe fiaccolate.
[Foto di Vince the photographer (www.flickr.com)]

E nel giro di poche ore la ''Piccola Montagna'' scomparve...
Gibellina era una piccola città della valle del Belice. Molto calda d'estate e fredda d'inverno. Era stata fondata su cinque colline nel 300 a. C. Il nome deriva dall'arabo: "Gibel" (montagna) e  "Zghir" (piccola).
Di seguito il racconto di quel giorno da "Addio, Gibellina" di Leonardo Cangelosi, testimonianza di chi ha vissuto in prima persona l'antica tragedia e l'angoscia del domani.

14 Gennaio 1968. Di buon mattino c'è già una certa animazione per le strade del paese. E' domenica e oggi si vota per il rinnovo del Consiglio Comunale. A nessuno passa per la testa che questo giorno potrebbe essere l'ultimo come in effetti lo è. C'è freddo, un freddo secco e pungente: la neve caduta qualche giorno prima si è indurita nei cantucci più ridossati, ma la mattinata è tersa, serena, piacevole.

Ore 13,30. Sono tutti a pranzo. Si ode un gran rumore indefinito, un fracasso, come se cento carretti siciliani attraversassero di gran carriera una strada piena di ciottoli, trenta, quaranta secondi in tutto. Ci si guarda negli occhi, nessuno si rende effettivamente conto di ciò che accade.

E' iniziata l'agonia.

Ore 14,07. Le case ondeggiano paurosamente, in tutte le strade si osserva, fra lo sbigottimento generale, che le costruzioni di destra fanno profondi inchini e traballanti riverenze a quelle di sinistra, e quelle di sinistra fanno altrettanto; è una lugubre contradanza accompagnata da profondi boati e scricchiolii terrorizzanti. Cade qualche tetto, qualche cornicione, i muri si lesionano, i mobili modificano la loro abituale posizione, i vetri tintinnano; in qualche casa si accendono le luci senza che nessuno tocchi gli interruttori, luci che non si riesce a spegnere in nessun modo. I cittandini sono tutti, o quasi, andati via, ma si fermano appena fuori il paese. Comincia un frenetico andare; si cercano amici e parenti, si improvvisano ripari e sistemazioni per la gelida notte incipiente. Il gigante resiste, ma le ferite si accentuano, diventano mortali e la tragedia non tarda. Arrivano automezzi di soccorso e molta gente parte alla volta di paesi della parte occidentale che risultano fuori della fascia sismica.  
Nelle campagne tra Gibellina e Camporeale spuntano dei piccoli crateri zampillanti una poltiglia grigio-giallastra, qua e la, sorgenti di acqua sulfurea. Dappertutto un odore acre e disgustoso. Sulle strade si aprono e si chiudono quasi subito delle voragini; molti ponti sono lesionati ed alcuni irrimediabilmente.

E' la fine. Gibellina non c'è più.

Le luci si spengono, le linee telefoniche saltano sotto il fragore assordate del terremoto e delle abitazioni dei centri storici, che si sgretolano annientate in circa dodici secondi con un forte movimento ondulatorio Est-Ovest.
Poi il silenzio, rotto dalle urla disperate di chi è sopravvissuto e brancola al buio tra la polvere soffocante alzatasi durante i crolli e il passo difficoltoso fra le macerie.

Sono le 3 e otto minuti primi del 15 Gennaio 1968. A circa quaranta chilometri di profondità sotto la Valle del Belice si rimette in movimento una frattura assopita dalla notte dei tempi generando onde sismiche, stimate di magnitudo 6.0 e con effetti all'epicentro, del IX° Mercalli.
Alle prime luci dell'alba la tragedia rivela la sua dimensione catastrofica. Gibellina, 6.930 abitanti, 378 metri sopra il mare, si è sbriciolata.

Gibellina 1968 - Il Grande Cretto di Alberto Burri
(www.palinsesti.org)
Il centro storico di Gibellina venne distrutto dal sisma del 15 gennaio 1968, che provocò 1150 vittime, 98.000 senzatetto e sei paesi distrutti nella valle del Belice. Su queste macerie Alberto Burri ha realizzato il Grande Cretto. L'opera consta di un'enorme colata di cemento bianco che compatta i dodici ettari di macerie del centro storico di Gibellina. Il progetto fu avviato nel 1984 e terminato cinque anni dopo. Le macerie furono distrutte grazie all'intervento dell'esercito; raccolte con bulldozer, compattate e tenute insieme da reti metalliche. Sopra questi blocchi omogenei si colò il cemento liquido bianco. Ogni fenditura è larga 2-3 metri, mentre i blocchi sono alti un metro e sessanta circa. Il tracciato dei blocchi e delle fenditure ricalca in buona parte l'impianto urbanistico, con le strade e gli isolati. L'efficacia del progetto e l'intensità dell'impatto percettivo sono dati dall'opposizione visiva tra l'esterno (l'opera come arte ambientale, che si può leggere a chilometri di distanza con un effetto quasi pittorico) e l'interno: l'opera come spazio percorribile, ad altezza d'uomo - un vasto e spettrale labirinto aperto fra le crettature, che diviene un percorso di smarrimento, di riflessione sulla nozione stessa di perdita.

"Andammo a Gibellina con l'architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangeree subito mi venne l'idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest'avvenimento. Ecco fatto!” (Alberto Burri, 1995)

"Preparammo le planimetrie perimetrando la zona dell'intervento con un rettangolo che copriva quasi tutta la superficie dei ruderi eliminando le sfrangiature perimetrali. Solo allora capimmo la grandezza del progetto, l'opera copriva più di dieci ettari di superficie, da stupire i Faraoni ma non Burri che impaziente, su un plastico del terreno, preparato in quattro e quattr'otto, distese nei limiti del rettangolo ipotizzato la sua superficie di malta bianca per ottenere il cretto. Incise la rete viaria principale lasciando che il cretto (cioè le crepe) si formasse spontaneamente. Si prepararono i disegni esecutivi che prevedevano l'abbattimento dei muri ancora in piedi e pericolanti, compattando poi le macerie e rivestendole con rete metallica, secondo le forme del progetto e il tutto ricoperto di cemento bianco”. (Alberto Zanmatti)

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15 gennaio 2008
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