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NOVECENTO ITALIANO - Una storia

Con il critico Piero Montata in visita al Palazzo Reale per l’importante esposizione che mette in mostra un pezzo imprescindibile della Storia dell’Arte italiana

05 aprile 2017
NOVECENTO ITALIANO - Una storia

Rappresentare l’arte italiana del Novecento in una mostra con poco più di sessanta opere non è neppure tentare di fare un’antologia dell’arte italiana del XX secolo. Per noi critici è poi un’impresa davvero impossibile rendere conto, sia pure attraverso una selezione di opere rappresentative, di questo enorme patrimonio artistico che va dal Futurismo ai Valori plastici, dal Novecento al Realismo magico e alla Metafisica, per giungere poi alla Scuola romana, agli Italien de Paris, alla Scuola di Via Cavour, al Gruppo Forma 1, allo Spazialismo di Fontana, al Gruppo di Piazza del Popolo per giungere infine all’Arte povera e alla Transavanguardia.
Non basterebbe un volume per raccontarne la storia. Di questa importante mostra "NOVECENTO ITALIANO. Una Storia", che si tiene nelle sale Duca di Montalto di Palazzo Reale a Palermo, abbiamo pertanto scelto 7 capolavori, che indipendentemente da scuole e tendenze, ci sembrano assai significativi per le molteplici suggestioni che ancora oggi essi suscitano in noi.
Prima di cominciare, ribadiamo dunque che non vogliamo qui fare un sunto della storia dell’arte italiana del XX secolo, perché anche volendo ce ne mancherebbe lo spazio.

Iniziamo pertanto con "Canto patriottico in piazza di Siena", splendido smalto su tela di Giacomo Balla. L’opera datata 1915 è un epos festoso di vortici e linee colorate lanciate orgogliosamente verso il cielo. L’entusiasmo futurista per la guerra "sola igiene del mondo" è espresso qui in una rappresentazione sinestetica di colori e suoni in un movimento vorticante verso alte dimensioni ideali.

Con il mosaico di Gino Severini "Composizione" del 1933 prendiamo atto della necessità da parte dell’artista di volgersi dalla modernità al mondo antico. Utilizzando la tecnica del mosaico Severini si rapporta infatti al mosaico romano e bizantino, riprendendone l’iconografia: maschere, pesci, anfore. Alla base di questo ritorno all’antico sta la convinzione che l’arte è scienza umanizzata e che nella divisione delle due componenti va individuata una delle cause della decadenza dell’arte. Per tali convinzioni Composizione viene dall’artista elaborata, basandosi su componenti geometriche e matematiche alla luce della regola che governava l’arte antica in cui la tecnica non era separata dalla poetica.

"Gli Archeologi misteriosi" splendido olio su tela firmato e datato Giorgio De Chirico 1926, sicuramente uno dei capolavori della Metafisica, va pure letto in chiave antimodernista. Qui infatti sono gli archetipi, i contrari come giorno e notte, bianco e nero ad affascinare l’artista, che ribatte ai surrealisti che l’accusano di inattualità: "Queste nuove cose che dipingo sono una vera rivelazione. Ho risolto il problema della pittura in modo eclatante, vedrete una pittura di una solidità e chiarezza, di un fascino e di un meraviglioso mistero". Nel recupero di un mondo classico e di un ritorno al mestiere, con i suoi manichini, le sue statue che vengono da lontano, simulacri fissati su immobili piedistalli, come immagini di personaggi melanconici colti nella rispondenza del doppio, De Chirico torna nelle sue tele a far vivere antiche, demoniache, in senso socratico, presenze.

Con "l’Isola dei giocattoli", olio su tela del 1930, Alberto Savinio, pseudonimo di Andrea De Chirico, si accosta alla polemica antisurrealista aperta dal fratello, definendo il suo surrealismo in opposizione a quello ufficiale "perché non si contenta di rappresentare l’informe e di esprimere l’incosciente, ma di dar forma all’informe e coscienza all’incosciente". Nel cuore di un mondo fantastico, in un mare oscuro sovrastato da un cielo solcato da nubi naviga l’isola dei giocattoli, allusione ludica ad un’infanzia minacciata, che tuttavia ancora galleggia, tra onde spumanti, luminosa e squillante di colori. Isola questa a cui l’artista approda nel grigiore che da ogni parte la circonda. La fantasia, l’infanzia, i colori, il giuoco, il divertimento, l’ironia diventano qui elementi fondanti della poetica antiborghese dell’artista.

"Natura morta", olio su tela (1947) di Giorgio Morandi, ci trasporta in un universo fatto di solitudine e spiritualità in cui il pittore bolognese visse recluso a partire dagli anni 20, estraniandosi sempre più dal mondo, dai movimenti e dalle correnti artistiche del suo tempo. Morandi tuttavia deve molto ad una linea di purezza ed essenzialità teorizzata da "Valori Plastici", linea questa al pittore congeniale che la volle mantenere alla base della sua scelta di rigore, severità, equilibrio che impronterà tutta la sua attività. Concentrato a partire dagli anni Trenta sulle nature morte, Morandi non cerca nuovi temi. La sua pittura è una mistica degli oggetti quotidiani: bottiglie, vasi, caffettiere, ciotole. L’oggetto è sempre un tramite, un punto d’appoggio per andare oltre la banalità della sua esistenza. Le sue bottiglie sono vasi di pura spiritualità, hanno a che fare tutte con una silenziosa dimensione, che le aliena dal mondo. È proprio l’Altro dal mondo, l’Assoluto che esse incarnano nella rigorosa rappresentazione pittorica, in cui la luce ed un colore distillato, purissimo hanno un ruolo predominante. Nella particolare Natura Morta di cui ci occupiamo ciò balza subito in evidenza. Le bottiglie bianche allineate l’una accanto all’altra non hanno nulla di materico, esse sono semplicemente fantasmi che vengono a visitarci da un altro mondo.

Giuseppe Capogrossi, Alberto Burri, Lucio Fontana, come si sa, costituiscono la triade dei giganti italiani della seconda metà del Novecento. Se Capogrossi rappresenta il segno (nella mostra possiamo ammirare "Superficie 230", olio e tempera su tela del 1957), Burri e Fontana si riveleranno rispettivamente veri e propri maestri della materia e del gesto. L’attenzione per la materia priva da ogni contorno, da ogni forma costituisce una svolta decisiva per l’arte di Burri che già a partire dal 1950 lasciandosi dietro "la bella pittura" del postimpressionismo e del postcubismo, con le "muffe" tenta la sua avventura nell’ambito dell’informale, ponendosi come obiettivo la sola indagine sulle qualità espressive, pittoriche di una materia pastosa, densa che contiene o sembra contenere in sé tracce di organico. Qui non siamo ancora all’impiego di materiali extrapittorici quali sacchi, legni, ferri e plastiche combuste. Qui Burri fa ampio uso di colori ad olio sia pure mescolati a pietra pomice. Eppure in queste "muffe" c’è tutto Burri, ci sono soprattutto le sue opere finali "i cretti" per quel senso di deterioramento di una materia usurata, screpolata, sul punto di essiccarsi, sgretolarsi, spaccarsi e che preannuncia così la sua imminente fine, putrefazione. La "Muffa", olio e pietra pomice su tela del 1952, presente in mostra è una straordinaria opera pittorica che all’informale aggiunge delle singolari note di una malinconica poetica in Burri ancora tutta da esplorare per le malie, le suggestioni di un segreto, non dichiarato istinto di morte.

Per concludere non ci resta che parlare di un raffinato artista concettuale quale Giulio Paolini, che con "Belvedere" (2006) realizza un collage poetico dove i pianeti, gli anelli di Saturno, ma anche una sveglia (il tempo) sembrano scaturire dalle bolle di sapone, che un ragazzo esternamente appoggiato su una grande sfera (l’universo?) è intento a soffiare. Paolini in quest’opera riprende l’immagine del ragazzo che soffia le bolle dal quadro omonimo di Jean Baptiste Simeon Chardin, artista francese del Settecento, ma la citazione è inserita in un contesto in cui il gioco infantile in questione diviene metafora della creazione di mondi, illusori, inconsistenti.

La mostra "NOVECENTO ITALIANO. Una Storia" è da vedere assolutamente, perché in essa sono ancora in esposizione molti altri capolavori, di cui noi per ragioni di spazio non abbiamo parlato. Segnaliamo qui en passant le opere degli artisti del Gruppo Forma 1, rappresentato quasi al completo, con tele di Sanfilippo, Accardi, Turcato, Dorazio, Perilli, Attardi e una scultura di Consagra. Presenti anche l’Arte povera e la Transavanguardia la prima con due opere, una di Mario Merz l’altra di Kounellis, la seconda con una grande tela di Mimmo Paladino. Ma non vanno dimenticate le opere realizzate in gran parte negli anni trenta da artisti come Mario Mafai ed Antonietta Raphael, che rappresentano la Scuola romana, né quelle di Sironi, Carrà, De Pisis, Cagli, Gentilini, Fausto Pirandello piene di suggestioni derivanti ora da una riscoperta di un passato arcaico ora da una poetica neoimpressionista ora infine da un impatto emozionale davanti la plasticità di una materia corposa e scabra.

Piero Montana

[Nella gallery altre opere in mostra]

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05 aprile 2017
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