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Cosa vuol dire oggi ricordare l'Olocausto? Intervista a Abraham B. Yehoshua

''Ricordare serve a cercare un vaccino che impedisca all'umanità di ripiombare nella follia''

27 gennaio 2004
Lo scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua intervistato dal quotidiano la Repubblica

Signor Yehoshua, cosa vuol dire oggi ricordare l'Olocausto?
"Vuol dire occuparsi di qualcosa che non tocca solo gli ebrei. Infatti non siamo solo noi ebrei che rivisitiamo la Shoah. In Europa, in America, in buona parte del mondo contemporaneo, gli studiosi e gli storici ma anche la gente comune provano e riprovano a capire cosa fosse quel patologico aspetto del nazismo che passa sotto il nome di "soluzione finale". E paradossalmente io trovo che, con il passare degli anni, più ci allontaniamo da quello che è avvenuto, più l'interesse verso l'Olocausto aumenta, anziché diminuire".

Perché?
"Perché non lo abbiamo ancora compreso fino in fondo. Prendiamo la prima guerra mondiale, o la seconda: il mondo se ne è occupato a lungo, poi le ha collocate nel proprio passato remoto, le ha per così dire risolte e archiviate, lasciando che soltanto gli specialisti continuino a frugare in quegli avvenimenti. Con l'Olocausto, invece, dopo quasi sessant'anni l'interesse non si è esaurito, ma cresce. Con l'Olocausto siamo davanti a qualcosa che turba e avvince anche popoli niente affatto coinvolti nello sterminio degli ebrei. Qualcosa di sconvolgente che continua a catturare l'interesse dell'umanità".

Il fascino perverso dell'orrore supremo?
"L'orrore per un progetto che fa accapponare la pelle: sterminare un intero popolo, cancellare una razza dalla faccia della terra. Il punto è: perché sterminarlo? Nella storia del mondo non mancano le guerre, i massacri, anche i tentativi di sterminio: solo che in genere si può individuare una ragione, non dico una giustificazione, ma una logica, per quanto spietata. Un popolo vuole sterminarne un altro per strappargli territorio, ricchezze, potere, per prevenire un attacco. Ma nella Shoah abbiamo visto un popolo, anzi più d'uno, perché i tedeschi hanno potuto contare sull'assistenza di vari alleati, che cerca di sterminare un altro popolo per nessuna delle ragioni sopra citate. Verrebbe da dire: per nessuna ragione. Per puro odio razziale, senza motivazioni razionali".

Dunque le motivazioni vanno cercate nell'irrazionale?
"L'Olocausto fece emergere quella che io chiamo "giudeofobia", una sorta di irrazionale paura degli ebrei, una paura che genera fanatica avversione e perfino paranoia. Al punto che Hitler, chiuso nel bunker di Berlino durante gli ultimi giorni della guerra, confidava ai suoi collaboratori di essere stato sconfitto dalle forze occulte del "giudaismo internazionale", non dall'America e dall'Unione Sovietica".

Da dove viene questo odio paranoico?
"Affonda le radici in secoli di razzismo, intolleranza, discriminazione, accompagnate da frequenti sussulti di violenza, che hanno avuto nella Shoah la loro esplosione culminante. Due millenni e più di antisemitismo, un odio per gli ebrei che si è diffuso attraverso i veicoli più svariati: la chiesa cristiana, il comunismo, e oggi buona parte dell'Islam".

L'antisemitismo è tornato a farsi sentire anche in Europa.
"Non è mai scomparso del tutto. L'Europa ha bisogno di vincere i suoi sensi di colpa. Ha interpretato a lungo il sionismo come una nuova forma di colonialismo, per cui accusa Israele di fare, con l'occupazione dei territori palestinesi, quello che le potenze europee fecero in Africa e in Asia nel secolo scorso. Ma il sionismo non era colonialismo: gli ebrei non sono tornati nella Terra Promessa per colonizzare gli arabi, né per dominarli, anche se nel loro ritorno ci sono aspetti tutt'altro che da assolvere. Inoltre l'Europa si sente responsabile per quello che è accaduto ai palestinesi. Gli ebrei sono fuggiti dall'Europa e hanno fondato il loro stato in Israele dopo la tragedia dell'Olocausto, perpetrato da tedeschi ed europei: ma il prezzo è stato pagato dai palestinesi. Ebbene, poiché gli ebrei accusano gli europei per la Shoah, ora molti europei possono accusare Israele per l'oppressione dei palestinesi. E concludere che in fondo gli ebrei non sono migliori o diversi da loro".

Non c'è il rischio che qualunque critica della politica di Israele verso i palestinesi possa essere tacciata di antisemitismo?
"I primi a criticare la politica di Israele verso i palestinesi, e nel modo più aspro, sono molti israeliani, me compreso. Dunque non solo si può, si deve criticare Israele. Ma a mio parere l'Europa dovrebbe criticare di più anche Arafat e l'Autorità palestinese per gli errori enormi che hanno commesso, per l'uso della violenza e del terrorismo, per le opportunità mancate".

Secondo lei l'Europa è fondamentalmente anti-israeliana?
"Certamente non lo fu in passato. C'era grande simpatia e solidarietà verso di noi nei primi anni di vita del nostro Stato. I giovani europei venivano a lavorare come volontari nei kibbutz. Allora Israele destava profondo entusiasmo".

L'umore è mutato dopo la guerra dei Sei Giorni del '67, o meglio con l'occupazione di Cisgiordania e Gaza?
"Trent'anni e passa di occupazione hanno rappresentato un danno enorme per Israele. E ancora più dell'occupazione, ci hanno danneggiato le colonie ebraiche, i nostri insediamenti nei Territori occupati. Non sono serviti a nulla, sono moralmente ripugnanti, rappresentano un disastro".

In Israele l'Olocausto viene celebrato in primavera, con una cerimonia toccante: due minuti di silenzio in cui l'intero paese si ferma sull'attenti. Cosa suggerisce agli europei che il 27 gennaio vorranno ricordare e riflettere?
"Ricordare serve a cercare un vaccino che impedisca all'umanità di ripiombare in quella follia collettiva che è stata la Shoah. Chiedersi come evitare che una tragedia simile possa ripetersi. Sa, a volte io immagino di convocare in una stanza, con un tocco di bacchetta magica, tutti i grandi saggi dell'ebraismo del passato, da Mosè in poi, e di proiettare su una parete un documentario sull'Olocausto: i treni piombati, i lager, i camini, i mucchi di cadaveri... Poi, riaccesa la luce, direi a ciascuno: vai, torna nella tua epoca, fai tutto quello che puoi per cambiare la storia, per impedire che si avveri ciò che hai visto".

Il passato si può cambiare solo al cinema...
"O in un romanzo. Ma è un esercizio utile. Ecco, immagino che Mosè, tornato tra gli ebrei del suo tempo, faccia in modo di essere sepolto nella Terra Promessa. Come è noto, Mosè riuscì soltanto a intravedere da lontano questa nostra terra, nessuno sa dove fu sepolto. Bene, immaginiamo che ordini ai suoi fidi: "Prendete il mio corpo e portatelo in Israele, costruitemi come tomba un'immensa piramide, fate sì che il mio popolo rimanga sempre vicino a essa". Chissà, forse così gli ebrei non avrebbero lasciato Israele, non si sarebbero dispersi per il mondo, non ci sarebbe stata la diaspora. E nemmeno l'Olocausto. Nella prima metà del Novecento, i padri del sionismo, Herzl incluso, ammonivano: in Europa si prepara una grande catastrofe per gli ebrei. E un brutto giorno la catastrofe è arrivata".

Abraham Yehoshua è nato a Gerusalemme nel 1936. Attualmente insegna Letteratura comparata all'Università di Haifa, città dove vive. Le sue opere sono state accolte da un crescente consenso internazionale che lo ha portato in breve ad essere considerato tra gli autori ultimamente più interessanti e vivaci. Tra i suoi romanzi (pubblicati in Italia per Einaudi) vanno ricordati almeno Cinque stagioni, Il signor Mani, L'amante (tradotto in quindici lingue), Ritorno dall'India e Un divorzio tardivo, Viaggio alla fine del Millennio. In tutti il problema dell'identità ebraica viene indagato a fondo, a partire da una situazione particolare di partenza che diventa il motore per una ricerca a tutto campo sulle lacerazioni e i dilemmi di un'intera cultura.
Yehoshua in Italia collabora con il quotidiano "La Stampa", rivelandosi per un attivo osservatore della realtà del suo paese, e profondo conoscitore della politica e storia recente. In questa prospettiva si colloca il suo intervento saggistico Diario di una pace fredda, pubblicato in Italia da "Einaudi Contemporanea"), sul problematico rapporto e la difficile convivenza tra palestinesi e israeliani

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27 gennaio 2004
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