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Amnesty International

Spazio alle news e ai comunicati della nascente sezione on line del Gruppo Italia 233 Palermo

12 marzo 2002


Offriamo volentieri lo spazio del nostro portale
all'informazione, alle news ed ai comunicati
provenienti dalla nascente sezione on line di
Amnesty International
Gruppo Italia 233 (Palermo)



''UNA CONDOTTA POCO RACCOMANDABILE''
Per Amnesty International il progetto della condotta Baku-Tblisi-Ceyhan, in cui è coinvolta anche l’Eni, mette a rischio i diritti umani

"Il progetto della condotta che collegherà il mar Caspio al Mediterraneo rischia di avere serie conseguenze sui diritti umani per migliaia di persone che vivono nelle regioni interessate", si legge in un rapporto pubblicato oggi da Amnesty International. "I termini legali del contratto quarantennale firmato nel 2000 dal governo della Turchia e dal Consorzio proprietario della condotta creano una corsia preferenziale esentata dal rispetto della legge, senza minimamente tener conto della minaccia incombente sui diritti umani di migliaia di persone" - ha dichiarato l'organizzazione.
Il Consorzio, che si propone di portare petrolio e gas per 1740 chilometri da Baku via Tblisi fino a Ceyhan (attraversando Azerbagian. Georgia e Turchia), con un costo totale di oltre 4 miliardi di euro, comprende importanti aziende di dimensioni mondiali, tra cui BP (Regno Unito), Statoil (Norvegia), Unocal (Usa), Itochu (Giappone), TotalFinaElf (Francia), ConocoPhillips (USA) e, per il 5% del contratto, ENI (Italia).
"Non è accettabile che un'azienda come l'ENI, che afferma nei suoi documenti di impegnarsi ovunque, nell'ambito della propria sfera di competenza, a sostenere e rispettare i principi della Dichiarazione universale dei diritti umani, utilizzi finanziamenti provenienti da investitori privati o dai contribuenti italiani per partecipare ad un contratto che espropria un governo della sua responsabilità di garantire il pieno rispetto dei diritti umani" ? ha dichiarato Umberto Musumeci, responsabile del Coordinamento diritti economici e sociali della Sezione Italiana di Amnesty International.
Il rapporto dell'organizzazione per i diritti umani esprime grave preoccupazione per il fatto che l'Host Governement Agreement (HGA) negoziato dalla capofila BP e dal governo turco mette quest'ultimo nella impossibilità di proteggere i diritti umani nell'area, poiché la Turchia si e impegnata a pagare ingenti rimborsi al Consorzio in caso in cui la costruzione dell'oleodotto o la sua operatività siano "disturbate".
"Si tratta, in sostanza, di una multa per aver rispettato la legge, che la Turchia dovrebbe pagare se applicasse nell'area interessata dall'oleodotto le stesse norme che sono valide nel resto del suo territorio e che invece, secondo il contratto, non potrà applicare nella zona?"  ha aggiunto Musumeci. "Siamo di fronte a un'imposizione che vieta alla Turchia di aderire a nuovi trattati internazionali o di applicare quelli già sottoscritti, se essi dovessero risultare in contrasto con le clausole del contratto".
Secondo Amnesty International, durante i 40 ? 60 anni previsti per la costruzione e l'operatività dell'oleodotto si potrebbero avere le seguenti conseguenze: - limitazione del diritto al risarcimento per le 30.000 persone che saranno costrette a cedere i propri diritti sulla terra per far posto all'oleodotto; - inadeguata applicazione delle norme a tutela della salute e della sicurezza per i lavoratori e la popolazione locale; - gravi rischi di abusi dei diritti umani nei confronti delle persone che intendessero protestare contro le modalità di realizzazione dell'opera; - difficoltà di accedere alle fonti d'acqua per la popolazione locale, in un'area peraltro già caratterizzata da mancanza di acqua. Il Professor Sheldon Leader, consulente legale di Amnesty International, ha dichiarato che "l'HGA firmato da Turchia e Consorzio di fatto introduce un precedente, sul piano politico e giuridico, che crea disordine nel sistema legale internazionale. La richiesta alla Turchia di pagare una indennità al Consorzio per ogni rottura dell'equilibrio economico del progetto significa che la Turchia sarà costretta a scegliere tra l'obbligo di proteggere i diritti umani e la loro violazione, quando la prima opzione si porrà in contrasto con la legge degli affari".
"L'HGA e' inoltre in clamorosa rotta di collisione con la Convenzione europea sui diritti umani, che richiede agli Stati di intervenire preventivamente anche solo in presenza di un rischio eventuale per la vita delle persone?" ha proseguito Musumeci, "Esso si limita a prevedere la possibilità per la Turchia di intervenire sul progetto solo in caso di minaccia imminente e materiale alla sicurezza, pena la corresponsione di grosse indennità. Le autorità turche peraltro non avrebbero neanche la
possibilità di adire le vie legali tramite il proprio sistema giudiziario, poiché ciò è chiaramente escluso dal contratto, che prevede l'obbligatorietà di usare l'opzione arbitrale, da esercitare tramite una organizzazione di arbitraggio collegata alla Banca Mondiale, l'International Centre for the Settlement of Investment Disputes (ICSID)".
In un momento in cui la Turchia sta cercando di migliorare la propria situazione dei diritti umani, anche in vista di un eventuale futuro ingresso nell'Unione Europea, una stringente necessita' di finanziamenti esteri la mette in condizione di non poter aderire a nuovi trattati internazionali o di non rispettare quelli già firmati, perché potrebbero essere in contrasto con gli obblighi imposti dall'HGA.
Gli arresti e le detenzioni arbitrarie di prigionieri di coscienza, le torture, le sparizioni, le esecuzioni extragiudiziali e le altre violazioni dei diritti umani regolarmente denunciate da Amnesty International, non potranno certo diminuire se la Turchia sarà obbligata a creare lungo il tragitto dell'oleodotto una "zona franca" rispetto ai diritti umani: eventuali oppositori o contestatori dell'operazione rischiano di aumentare la già numerosa lista dei perseguitati.
La Sezione Italiana di Amnesty International chiederà al governo italiano di non mettere a disposizione dell'operazione - né direttamente né tramite aziende di propria partecipazione o istituti statali - somme di denaro pubblico sotto qualunque forma (prestito, contributo, credito all'export) se non dopo una profonda revisione dei termini legali del contratto.
A tale proposito, Amnesty International chiede che: - siano inserite nell'HGA specifiche clausole che affermino espressamente il diritto della Turchia di rispettare i diritti umani in base al diritto internazionale e al suo diritto interno; - sia costituito un organismo indipendente che tuteli gli interessi degli stakeholder (soprattutto le rappresentanze delle comunità locali) per controllare da vicino gli standard applicati e ricevere ed esaminare le proteste dei lavoratori e della popolazione locale lungo tutta la vita del progetto. A tale organismo dovrebbero essere attributi poteri di
intervento sul progetto quando ritenuto necessario; - il Consorzio sottoscriva un impegno concreto con coloro che saranno impiegati nel progetto per garantire loro che, lungo tutta la durata delle
costruzione e della operatività, il progetto sarà gestito in conformità alle norme internazionali sui diritti umani.
" I diritti umani ? - ha concluso Musumeci - non possono essere oggetto di trattative in contratti fra le aziende e i governi: essi sono un requisito intoccabile. Questo progetto non deve andare avanti se non se ne cambieranno le clausole che minano l'applicabilita' dei diritti umani."

Comunicato del 27 maggio 2003
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Iraq, Bassora: Necessario affrontare l’emergenza umanitaria della popolazione civile

Amnesty International ha ribadito oggi le preoccupazioni già espresse dal Comitato internazionale della Croce Rossa per il dramma della popolazione civile di Bassora, che è priva di acqua da venerdì pomeriggio e che da tre giorni è sotto il fuoco degli USA e delle forze loro alleate.
"Temiamo che la situazione di Bassora possa ripetersi in altre città e zone dell'Iraq. I comandi militari hanno la responsabilità di valutare con la massima attenzione le conseguenze, per la popolazione civile, di ogni obiettivo che intendono colpire. Tutte le parti in conflitto devono garantire che affronteranno l'emergenza umanitaria della popolazione civile" - ha dichiarato Amnesty International. "Con l'intensificarsi delle attività militari in Iraq è indispensabile che la salute e la sicurezza della popolazione civile ricevano maggiore considerazione".
Amnesty International chiede infine alle autorità irachene e ai comandi militari degli USA e dei loro alleati devono facilitare l'accesso e le attività delle organizzazioni umanitarie.
Comunicato del 24 marzo 2003

"Colpisci e terrorizza": Amnesty International chiede un chiarimento urgente sulle misure adottate per proteggere i civili
A seguito dell'attacco su vasta scala lanciato ieri sera su Baghdad, una città di cinque milioni di abitanti, Amnesty International ha chiesto ai governi di Stati Uniti e Gran Bretagna di chiarire urgentemente quali misure abbiano adottato per proteggere la popolazione civile. L'organizzazione per i diritti umani ha ricordato a Stati Uniti e Gran Bretagna che, secondo il diritto internazionale umanitario, un attacco dev'essere cancellato o sospeso qualora risulti chiaro che esso sta causando una perdita sproporzionata di vite civili.
Amnesty International ha preso nota delle dichiarazioni delle autorità statunitensi e britanniche riguardanti la loro intenzione di minimizzare le perdite civili. Il 19 marzo il presidente George Bush ha affermato: "Voglio che gli americani e tutto il mondo sappiano che le forze della coalizione faranno ogni sforzo per evitare danni ai civili innocenti".
Il 20 marzo il segretario alla Difesa Rumsfeld ha avvertito la popolazione civile irachena: "Una volta iniziate le ostilità, restate nelle vostre case e ascoltate le emittenti radio della coalizione per sapere cosa fare per rimanere salvi e fuori dalla linea del fuoco. Non andate a lavorare. State alla larga da obiettivi militari e da ogni edificio dove Saddam Hussein ha trasferito strutture militari".
Quanto sopra non esime gli Stati Uniti dall'obbligo di astenersi da attacchi che potrebbero risultare indiscriminati o sproporzionati.
Comunicato del 22 marzo
 
Guerra in  Iraq: Amnesty International chiede al governo dello Yemen di aprire un’inchiesta sulla morte di alcuni manifestanti
Amnesty International è estremamente preoccupata per le notizie provenienti dallo Yemen, riguardanti la morte di alcuni manifestanti che protestavano contro la guerra. Tra le vittime vi sarebbe un ragazzo di 11 anni. Negli scontri sarebbe stato ucciso anche un poliziotto.
Secondo le informazioni ricevute, le proteste sono iniziate pacificamente ma la situazione è degenerata quando la polizia ha reagito con un uso eccessivo della forza.
Amnesty International chiede al governo dello Yemen di aprire un'inchiesta esauriente ed imparziale su questo episodio.
Decine di manifestanti, inoltre, sarebbero stati arrestati e alcuni di essi sarebbero stati picchiati dalle forze di sicurezza. Amnesty International chiede alle autorità yemenite di assicurare che queste persone non saranno torturate e potranno incontrare avvocati e familiari. Chiunque sia stato arrestato solo per aver manifestato pacificamente, dovrà essere immediatamente rilasciato.
"E' indispensabile che il conflitto militare in Iraq non venga usato come pretesto per reprimere la libertà di espressione nella regione mediorientale. Dobbiamo resistere alla rappresaglia contro i diritti umani" - ha affermato Marco Bertotto, presidente della Sezione Italiana di Amnesty International.
Comunicato del 21 marzo
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Le richieste di Amnesty International all’Unione Europea:
Proteggere la popolazione civile irachena, rispettare le leggi di guerra
Alla vigilia del Summit dell'Unione Europea di Bruxelles e nell'imminenza dell'inizio della guerra in Iraq, Amnesty International ha chiesto ai capi di Stato e di governo dei Quindici di mostrare la loro determinazione, individuale e collettiva, ad assicurare la stretta osservanza delle leggi internazionali sulla condotta di guerra.
Amnesty International ha trasmesso ai Quindici le dieci domande che ieri ha rivolto a George W. Bush, Tony Blair, Jose' Maria Aznar e Saddam Hussein:
- Quali misure avete preso per garantire il pieno rispetto del diritto internazionale umanitario in tempo di guerra?
- Potete garantire che non farete ricorso ad armi che, per la loro natura, hanno effetti indiscriminati?
- Quali misure adotterete per garantire che i civili fatti prigionieri saranno trattati in modo equo e umano?
- Quali misure adotterete per garantire che i diritti dei combattenti saranno rispettati?
- Potete spiegare cosa state facendo per soddisfare le necessità di tipo umanitario e di sicurezza della popolazione irachena?
- Come assicurerete protezione e assistenza ai rifugiati e ai profughi in fuga dal conflitto?
- Cosa intendete fare per assicurare alla giustizia internazionale i responsabili di reati?
- Siete disponibili a ricorrere ai servizi della Commissione permanente d'inchiesta umanitaria per indagare su gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra?
- Sosterrete e favorirete la presenza di osservatori internazionali sui diritti umani su tutto il territorio iracheno, una volta che le condizioni di sicurezza lo permetteranno?
- Come intendete assistere le Nazioni Unite nell'adempimento delle loro responsabilità in campo umanitario e dei diritti umani?
"I leader europei devono dichiarare pubblicamente e senza la minima ambiguità che intendono riaffermare i valori e gli impegni che vincolano l'Unione Europea e ciascuno dei suoi membri" - ha dichiarato Marco Bertotto, presidente della Sezione Italiana di Amnesty International. "Tutti i paesi, ma soprattutto quelli che partecipano alla guerra in Iraq, devono garantire che le leggi di guerra saranno rispettate da tutti coloro che agiranno sotto il loro comando".
Amnesty International chiede in particolare ai leader dell'Unione Europea di dichiarare la loro ferma opposizione all'uso di armi che sono di per sé indiscriminate, tra cui le bombe a grappolo, le mine antiuomo e le armi chimiche, biologiche e nucleari.
Amnesty International chiede inoltre ai leader dell'Unione Europea di assicurare che non vi sarà alcun attacco diretto contro i civili; che gli attacchi contro obiettivi militari non avranno un impatto sproporzionato contro i civili; che saranno pienamente soddisfatte le necessità umanitarie e di sicurezza della popolazione irachena; che i rifugiati e i profughi saranno protetti.
Amnesty International chiede infine ai Quindici di premere sul Consiglio di sicurezza affinché vengano inviati osservatori sui diritti umani delle Nazioni Unite, non appena la situazione lo consentirà.
Secondo Amnesty International, gli osservatori sui diritti umani sono essenziali per contribuire a prevenire abusi e a indagare sulle violazioni commesse da ogni parte coinvolta nel conflitto.
Fine del  Comunicato
Roma, 19 marzo 2003

Rapporto di Amnesty International sull’Afghanistan
L'azione della polizia per proteggere i diritti umani
Amnesty International ha presentato oggi a Kabul un nuovo rapporto dal titolo "La ricostruzione delle forze di polizia è essenziale per la difesa dei diritti umani". Dopo oltre due decenni di conflitto armato, durante i quali i diritti umani sono stati sistematicamente violati, l'Afghanistan necessita di un sistema giudiziario funzionante ed efficiente che protegga e promuova i diritti umani e di forze di polizia a disposizione della comunità che costituiscano parte integrante di tale sistema. Le forze di polizia, il sistema carcerario e i tribunali dell'Afghanistan, quasi completamente distrutti dal conflitto, oggi non offrono di fatto alcuna protezione alla popolazione del paese. Non solo la polizia è incapace di garantire la difesa dei diritti umani in Afghanistan, ma alcuni suoi membri sono direttamente coinvolti nelle violazioni dei diritti umani, tra cui torture e maltrattamenti durante la custodia o il ricorso a percosse e alla somministrazione di corrente elettrica nel corso degli interrogatori. I molteplici problemi che riguardano la polizia non consentono agli agenti di svolgere il proprio compito in modo rispettoso dei diritti umani. I salari non vengono pagati e le stazioni di polizia di ogni parte del paese sono prive anche del materiale di base come carta e penne. La mancanza di una formazione sufficiente, anche su come proteggere i diritti umani, è un ostacolo enorme allo sviluppo di un servizio di polizia funzionante, mentre la completa assenza di strutture per l'amministrazione della giustizia permette a chi viola i diritti umani di continuare a commettere abusi senza affrontare la giustizia.
"Per interrompere il ciclo dell'impunità che dura ormai da più di venti anni è necessario che i responsabili delle violazioni dei diritti umani siano chiamati a risponderne" - ha affermato Amnesty International, che ha chiesto alla comunità internazionale di aumentare il sostegno per la ricostruzione delle forze di polizia, essenziale per i diritti umani. "La ricostruzione di una forza di polizia professionale che rafforzi il ruolo della legge in tutto il paese, è un problema urgente che le autorità afgane devono risolvere in maniera prioritaria. Ma non possono farlo da sole. La comunità internazionale deve provvedere ai finanziamenti necessari al supporto tecnico e impegnarsi per un lungo periodo nella ricostruzione" - ha sottolineato l'organizzazione per i diritti umani. "La sfiducia nei confronti della polizia è assai diffusa nella popolazione e se i problemi evidenziati nel nostro rapporto non verranno affrontati immediatamente, la situazione si aggraverà."
Alla Conferenza internazionale sull'assistenza per la ricostruzione dell'Afghanistan, svoltasi a Tokyo nel gennaio 2002, la Germania accettò, su richiesta dell'Amministrazione provvisoria afgana, di guidare l'assistenza alla ricostruzione delle forze di polizia del paese. Il Progetto tedesco per il sostegno alla polizia in Afghanistan ha fornito supporto tecnico e finanziario e consulenza alle azioni di polizia dell'Amministrazione provvisoria afgana. Il Progetto ha anche previsto la ricostruzione dell'Accademia di Polizia a Kabul per addestrare 1500 agenti di polizia. Anche altri donatori, tra cui gli Stati Uniti, si sono concentrati sull'addestramento, tralasciando però molte altre aree essenziali, come l'importante costituzione di meccanismi di responsabilità e meccanismi di supervisione civile. In Afghanistan vi sono oltre 50.000 poliziotti, ma essi non si comportano come un corpo unitario di polizia. Molti sono ex Mujahideen, che hanno una grande esperienza militare ma poca o nessuna formazione professionale di polizia. La loro lealtà è diretta ai potenti comandanti regionali, con i quali hanno combattuto contro i Talebani. Questi comandanti sono stati in grado di mantenere il controllo delle province, riempiendo il vuoto lasciato dalla partenza dei Talebani, mentre il governo ha assunto l'effettivo controllo su Kabul.
Molti di questi Mujahideen hanno preso parte al conflitto armato per la maggior parte della loro vita e sono abituati ad agire nell'impunità. Anche se in tutto il paese vi sono agenti di polizia altamente impegnati, essi sono in minoranza e la loro presenza è insufficiente per fronteggiare l'opprimente mole di problemi che ritardano la necessaria riforma e professionalizzazione della polizia.
Fine del comunicato
Roma, 12 marzo 2003
E' anche disponibile il testo della lettera inviata dalla segretaria generale di Amnesty International, Irene Khan, al presidente degli USA, G. W. Bush, sul trattamento delle persone tenute in custodia dagli USA in connessione con la "guerra al terrorismo".

Iraq: La Segretaria Generale di Amnesty  International a colloquio con Re Abdullah di Giordania
"I diritti umani e i bisogni umanitari della popolazione irachena devono essere in cima all'agenda del dibattito sull'Iraq", ha dichiarato Irene Khan, Segretaria Generale di Amnesty International al termine di una sua visita in Giordania. Parlando dopo l'udienza avuta con Sua Maestà Re Abdullah bin Hussein, Irene Khan ha accolto con favore le parole del Re sulla necessità di una più grande attenzione per la situazione umanitaria dell'Iraq in caso di guerra. Re Abdullah ha assicurato che, in tale eventualità, la Giordania darà protezione ai rifugiati e garantirà accesso alle organizzazioni internazionali.
"La Giordania ha una lunga tradizione nell'accoglienza ai rifugiati" - ha dichiarato Irene Khan. "La comunità internazionale deve aiutare la Giordania e altri paesi confinanti e assicurare i fondi necessari per proteggere e assistere le persone in fuga".
In un momento in cui la minaccia di guerra fa aumentare le tensioni e la libertà di espressione e di assemblea è sottoposta a crescenti pressioni, la Segretaria Generale di Amnesty ha sottolineato la necessità che in Giordania sia garantita la protezione dei diritti umani. Irene Khan ha apprezzato le parole del Re secondo cui "la gente deve essere in grado di esprimere le proprie opinioni" e la sua disponibilità a riesaminare la legislazione interna, in particolare la legge 54 del 2001, che viene usata per limitare la libertà di espressione ed è causa di arresti e condanne.
La visita di Irene Khan in Giordania fa parte di una campagna di pressione di Amnesty International sugli Stati membri delle Nazioni Unite, compresi quelli della regione mediorientale, per assicurare che i diritti umani e le conseguenze umanitarie della crisi irachena siano oggetto della più totale considerazione.
Amnesty International chiede l'autorizzazione di visitare l'Iraq dal 1983 ed ha recentemente ricevuto una positiva risposta dal governo di Baghdad. "Stiamo cercando un dialogo serio. Siamo consapevoli che nell'attuale clima politico la situazione dei diritti umani può essere oggetto di manipolazione da ogni parte. Ma abbiamo il dovere di cercare una risposta alle gravi preoccupazioni per i diritti umani in Iraq che nutriamo da decenni".
Fine del comunicato
Roma, 10 marzo 2003

Russia, è ora di agire per fermare la violenza contro le donne
Dichiarazione congiunta di Amnesty International e Associazione russa dei Centri di crisi "Stop alla violenza"
La violenza contro le donne è uno dei più diffusi eppure nascosti abusi dei diritti umani. Essa è radicata in una cultura globale di discriminazione che nega alle donne i loro diritti fondamentali.
Nessun sistema politico o economico, nessuna cultura può chiamarsi fuori quando permette e giustifica la violenza contro le donne.
Negli Stati Uniti d'America una donna viene stuprata ogni sei
minuti, in Russia si stima che circa 14.000 donne muoiano ogni anno per violenza domestica, quest'anno in Cina più di 15.000 donne saranno vendute come schiave sessuali. La violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani che non può essere giustificata da alcuna motivazione politica, religiosa o culturale.
I dati forniti dalle organizzazioni femminili non governative mostrano come nella Federazione Russa i diritti delle donne alla vita e alla libertà dalla violenza vengano quotidianamente minacciati tra le mura domestiche, e come sia loro negato il diritto all'integrità fisica, psichica e sessuale: ogni giorno 36.000 donne sono picchiate dai loro mariti o compagni; ogni 40 minuti una donna viene uccisa in episodi di violenza domestica.
"Il numero delle donne che muoiono ogni anno in Russia per mano dei loro mariti o compagni è uguale all'incirca a quello di tutti i soldati morti nei dieci anni di guerra dell'Unione Sovietica in Afghanistan" - ha affermato Natalya Abubikirova, direttrice esecutiva dell'Associazione Russa dei Centri di crisi. "Quella della violenza contro le donne e' una questione di importanza nazionale. Il 53% della popolazione russa è costituita da donne e non possiamo tollerare l'indifferenza con la quale la società e lo Stato stanno trattando questo problema. Il nostro obiettivo è di cambiare la cultura di discriminazione contro le donne per poter migliorare la loro situazione".
All'inizio della sua campagna sui diritti umani nella Federazione Russa, nell'ottobre 2002, Amnesty International ha invitato le autorità di Mosca a introdurre lo specifico reato di violenza domestica nel codice penale, ad avviare corsi di formazione per le persone incaricate di far applicare la legge e ad ammettere l'esistenza del problema della violenza contro le donne - tra cui la violenza domestica e il traffico di donne - e a punirla nelle forme adeguate.
Il diritto internazionale parla chiaro: la violenza contro le donne non deve essere tollerata e i governi hanno il dovere di agire. Il governo russo deve cooperare con l'Associazione Russa dei Centri di crisi, con l'obiettivo di approntare una strategia e un programma d'azione efficaci per porre fine alla violenza contro le donne.
Secondo Amnesty International, "il 2003 dev'essere l'anno in cui le autorità russe faranno concreti passi avanti per proteggere le donne e dimostrare che la violenza domestica non sarà più tollerata".
Qualcosa si sta muovendo in alcune regioni della Federazione, dove le esponenti dell'Associazione dei Centri di crisi hanno istituito una cooperazione con le strutture governative locali. Le autorità
incaricate di far applicare la legge hanno mostrato di volersi impegnare sul fronte della violenza domestica. "Si tratta della strada giusta, ma e' necessario che il governo federale faccia molto di più:
ad esempio adottare misure, previa consultazione con le organizzazioni non governative, per rendere più efficiente la raccolta di informazioni da parte della polizia sui casi di violenza contro le
donne, mettere questi dati a disposizione del pubblico e istituire programmi di formazione per le autorità".

Sul sito Internet di Amnesty International e' possibile sottoscrivere
l'appello della campagna "Russia. Giustizia in rosso." sulla violenza
contro le donne all'indirizzo:
http://www.amnesty.it/appelli/campaign/russia_2002/appello_donne_2003.php3




Rapporto di Amnesty International sulla Bosnia Erzegovina

E' il momento di porre fine all’impunità per le ''sparizioni''
Le autorità della Bosnia e la comunità internazionale devono adottare misure immediate per affrontare l'enorme numero di casi irrisolti di ‘’sparizioni’’: lo ha dichiarato oggi Amnesty International, rendendo pubblico un nuovo rapporto sul continuo e devastante impatto di questa grave violazione dei diritti umani.
Si stima che, dopo la fine della guerra, la sorte di oltre 17.000 persone rimanga avvolta dal mistero. Molte di esse sono ‘’scomparse’’ dopo essere state viste per l'ultima volta nelle mani delle varie forze armate e si teme siano morte. In questi anni sono stati fatti straordinari progressi nel riconoscimento delle persone "scomparse" attraverso il processo di esumazione e identificazione dei corpi. La Bosnia vanta infatti uno dei più sofisticati sistemi di analisi del Dna nel mondo.
"Ora è necessario che le autorità del paese introducano una nuova legislazione, che renda la 'sparizione' un crimine e consenta finalmente di perseguirne gli autori" - ha affermato Paolo Pignocchi, responsabile del Coordinamento Europa orientale di Amnesty International, aggiungendo che la revisione in corso della legislazione penale costituisce un'opportunità ideale per prendere questi provvedimenti.
E' arrivato il momento di onorare le vittime delle "sparizioni", mettendo sotto inchiesta e perseguendo penalmente i responsabili e concedendo risarcimenti ai parenti e alle persone rimaste prive di mezzi che ancora non sono in grado di rifarsi una vita. Inoltre è necessario che, per favorire la riconciliazione e rimarginare le ferite ancora aperte, la gente conosca la vera storia di queste violazioni, che continuano a tormentare e dividere la società bosniaca.
Amnesty International ha ribadito la propria richiesta alla comunità internazionale, in particolare alla Missione di polizia dell'Unione Europea (EUPM) recentemente insediatasi in Bosnia, di attuare sul serio il dichiarato impegno in favore dei diritti umani e di incoraggiare e supervisionare le indagini della polizia sulle 'sparizioni' in modo da fornire una solida base per procedimenti giudiziari efficaci ed imparziali.
Secondo l'organizzazione per i diritti umani, quei pochi risultati sin qui ottenuti potranno essere pregiudicati se non si agirà immediatamente. In quella manciata di casi in cui sono state aperte inchieste su casi di 'sparizione', ciò è stato dovuto alla tenacia dei parenti e degli amici delle vittime e alla professionalità e al coraggio di qualche ispettore di polizia o magistrato.
"C'è evidente bisogno di un monitoraggio a lungo termine e dell'opera di osservatori sui diritti umani impegnati e competenti all'interno della comunità internazionale. Se la loro azione sarà ulteriormente indebolita, non resterà speranza per i molti casi irrisolti" - ha detto Pignocchi. "E' indispensabile che le autorità bosniache, a tutti i livelli, e la comunità internazionale elaborino ed attuino una strategia complessiva per affrontare queste violazioni dei diritti umani."
Oltre a portare una giustizia da lungo tempo attesa per tutte le vittime, i procedimenti giudiziari su specifici casi di 'sparizione' costituiranno la cartina di tornasole del complesso, lento e costoso processo di riforma del sistema giudiziario e degli organismi responsabili dell'applicazione della legge. Queste riforme hanno costituito una priorità elevatissima per la comunità internazionale negli ultimi anni, in particolare in vista della prevista chiusura, nel 2008, del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia.
"Un sistema giudiziario deve essere in grado di riparare alle violazioni dei diritti umani, 'sparizioni' comprese" - ha aggiunto Pignocchi. "Altrimenti, per quanto le sue regole e le sue strutture siano state ammodernate e riorganizzate con ampio dispendio di soldi, dal punto di vista degli esseri umani i cui diritti sono stati violati si tratterà solo della dimostrazione del trionfo dell'apparenza sulla sostanza."

Fine del comunicato
Roma, 5 marzo 2003

Per ulteriori informazioni, approfondimenti ed interviste:
Amnesty International - Ufficio stampa
Tel. 06 44.90.224, cell. 348-6974361

''Basta alla violenza sessuale nei confronti delle detenute!''
Presentato un nuovo rapporto di Amnesty International sulla Turchia
Istanbul - Le donne che si trovano in stato di detenzione in Turchia rischiano la violenza sessuale da parte delle forze di sicurezza: è questa la denuncia lanciata oggi da Amnesty International in occasione della presentazione del rapporto ''Basta alla violenza sessuale nei confronti delle detenute!''
Secondo il rapporto, donne di ogni origine sociale e culturale sono sottoposte ad abusi, aggressioni e stupri durante la detenzione. Particolarmente a rischio sono le donne curde e coloro che hanno idee politiche inaccettabili dal punto di vista delle autorità o dell'esercito.
Il rapporto di Amnesty International si basa su ricerche condotte nel corso del 2002 e su due visite compiute in Turchia a giugno e settembre dello stesso anno. L'organizzazione sottolinea che, dopo la stesura del rapporto, il governo in carica è cambiato.
''Le conclusioni del rapporto rappresentano una sfida per il governo, che deve trasformare in realtà le proprie dichiarazioni di intenti sui diritti umani'' - ha dichiarato Patrizia Carrera, responsabile del coordinamento Europa occidentale della Sezione Italiana di Amnesty International. ''Il nuovo governo non deve proseguire sulla strada del precedente, ma prendere misure concrete per risolvere il problema della violenza sessuale nei confronti delle donne''.
Le donne che hanno subito violenza sessuale riescono con estrema difficoltà a parlare e a ottenere giustizia: l'ostracismo nei loro confronti, la discriminazione da parte della società e il concetto di ''onore'' costringono al silenzio molte di esse.
Quando gli autori della violenza sessuale sono rappresentanti dello Stato, il loro comportamento rafforza quella cultura della violenza e della discriminazione che pone tutte le donne in pericolo. Amnesty International teme che essi ricorrano alla tortura, sotto forma di stupri e aggressioni sessuali, sapendo che le sopravvissute difficilmente vorranno denunciare l'accaduto.
Secondo le denunce ricevute da Amnesty International, le detenute vengono spesso denudate da agenti di sesso maschile durante gli interrogatori che si svolgono nelle stazioni di polizia o in prigione. In questa situazione le donne rischiano fortemente di subire violenze e umiliazioni.
Le detenute vengono anche costrette a sottoporsi a ''test della verginità'', allo scopo di punirle ed umiliarle. Le conseguenze di questi test su molte donne esaminate e il cui imene risulta non più integro, sono devastanti: violenze, umiliazioni e in alcuni casi la morte. La semplice minaccia di un test può essere sufficiente a provocare traumi psicologici; il rifiuto di un test può essere considerato come una ''offesa all'onore'' ed essere causa di ulteriori abusi sessuali.
Amnesty International è a conoscenza di casi di donne sottoposte a violenza sessuale di fronte ai propri mariti o familiari per costringere questi ultimi a ''confessare'' o, strumentalizzando il concetto di ''onore'', per ledere la reputazione della famiglia o della comunità di origine della vittima.
Dopo aver intervistato oltre cento detenute a Diyarbakir, Mus, Mardin, Batman e Midyat, la Commissione delle avvocate di Diyarbakir ha concluso che praticamente tutte le donne erano state sottoposte a ''test della verginità'' e che quasi tutte avevano subito abusi sessuali, sia verbali che fisici, mentre si trovavano in custodia della polizia.
''Allo stupro e alla violenza sessuale si aggiunge l'assenza di protezione e di risarcimenti nei confronti delle vittime'' - ha affermato Carrera. Le donne che hanno subito violenza sessuale devono spesso fare i conti con un diffuso ostracismo. Altre sono costrette a lasciare le proprie case, con o senza la famiglia. Molte, spesso, non denunciano l'accaduto perché ritengono che gli autori non saranno puniti.
Coloro che denunciano le violenze sessuali commesse da rappresentanti dello Stato rischiano di subire ulteriori abusi, azioni legali, minacce ed arresti.
Le avvocate che le rappresentano, a loro volta, vengono perseguitate dalle autorità, dai mezzi d'informazione e dai propri colleghi. Ottenere un risarcimento è particolarmente difficile nei casi in cui gli autori della violenza sessuale siano rappresentanti dello Stato, tanto per la scarsità delle inchieste quanto a causa di una legislazione assai protettiva nei confronti dei pubblici ufficiali sotto inchiesta. Secondo la legge, trascorso un certo periodo di tempo dal compimento di un reato, una persona indagata non può più essere condannata: diversi procedimenti, nei confronti di poliziotti accusati di tortura, sono terminati in quanto gli imputati non si sono presentati alle udienze, i loro avvocati hanno rimesso il mandato oppure non hanno fornito le prove richieste entro i termini stabiliti.
''I rinvii nei procedimenti non solo ritardano la giustizia ma fanno sì che gli autori della violenza sessuale, alla giustizia, non siano proprio chiamati a rispondere'' – ha sottolineato Carrera. La discriminazione nei confronti delle donne e la violenza sessuale sono fenomeni correlati. Quando un rappresentante dello Stato assume un comportamento discriminatorio, non solo dimostra di non voler rispettare i diritti delle donne ma contribuisce anche a perpetuare una cultura della violenza nei confronti di tutte le donne.
''Commettere violenza contro le donne, da parte di chi rappresenta le istituzioni dello Stato, significa trasmettere un chiaro messaggio di indulgenza verso atti di violenza in ogni settore - nelle istituzioni, all'interno della famiglia, nei rapporti individuali – e mettere in pericolo ogni donna. Questa situazione non può rimanere così!'' – ha concluso Carrera.
Amnesty International chiede al governo turco di intraprendere profonde riforme per porre fine alla violenza sessuale nei confronti delle donne, tra cui: - porre fine alla prassi di bendare e denudare le detenute durante gli interrogatori; - porre fine alle perquisizioni corporali delle detenute da parte di personale maschile; - vietare l'uso delle bende intorno agli occhi nelle stazioni di polizia; - portare di fronte alla giustizia coloro che compiono e che ordinano le violazioni dei diritti umani.

Fine del comunicato
Roma, 26 febbraio 2003

ULTIMI COMUNICATI
Siria: Sul sito di Amnesty Italia, un appello in favore della famiglia AL-SAKHRI.
"Mentre l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, adottando un Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura, rinnova l'impegno della comunità internazionale contro questa drammatica e diffusa violazione dei diritti umani, l'Italia continua a mostrare un impegno inadeguato a risolvere la vicenda della famiglia Al-Sakhri" - ha dichiarato oggi Marco Bertotto, presidente della Sezione Italiana di Amnesty International.
L'organizzazione per i diritti umani informa che sul proprio sito (che potrete trovare alla fine di questa pagina) è possibile sottoscrivere un appello ai ministri degli Affari Esteri e dell'Interno, affinché agiscano con la massima urgenza per garantire l'incolumità e il rispetto dei diritti umani dei sei cittadini siriani rimpatriati da Malpensa il 28 novembre, sulla cui sorte Amnesty continua a nutrire fortissime preoccupazioni.
FINE DEL COMUNICATO
Roma, 19 dicembre 2002

Rapporto di Amnesty International sulla Nigeria:
L'operato delle Forze di Sicurezza, una grave minaccia per i diritti umani

Nei tre anni successivi al ritorno del governo civile in Nigeria, l'operato delle forze di sicurezza nella repressione della criminalità in aumento e dei conflitti intercomunali ha provocato la morte di migliaia di persone. In molte occasioni, questa violenza è apparsa priva di ogni controllo e tollerata, se non apertamente sostenuta, dal governo.
In un rapporto reso noto oggi, Amnesty International denuncia che "nell'ambito della loro attività ordinaria, la polizia federale e le forze armate si rendono responsabili di numerose violazioni dei diritti umani quali esecuzioni extragiudiziali, uccisioni in custodia, torture e trattamenti crudeli, inumani e degradanti ai danni di presunti criminali".
Amnesty International è a conoscenza di molti casi di persone decedute dopo essere state torturate nelle stazioni di polizia. Questa nega ogni responsabilità, sostenendo che i decessi si verificano durante tentativi di fuga. Le vittime vengono etichettate come rapinatori a mano armata onde esporle al disprezzo dell'opinione pubblica e giustificare l'assenza di provvedimenti da parte dei
superiori.
Le esecuzioni extragiudiziali sono invece spesso legate ad operazioni delle unità speciali incaricate di pattugliare le strade per contrastare le rapine a mano armata, la violenza e le attività illegali delle stesse forze di polizia (come i posti di blocco non autorizzati, per estorcere denaro ai cittadini).
In un contesto di generale allarme per la criminalità, i difetti del sistema legale nigeriano consentono alla polizia di sospettare chiunque di rapina a mano armata o di omicidio senza alcuna prova, ottenendo in questo modo la sua permanenza in detenzione preventiva per anni.
"Gli scarsi risultati ottenuti nella repressione del crimine, le costanti denunce di violazioni dei diritti umani e il senso di sfiducia che lapolizia ispira tra i cittadini hanno favorito la nascita, a livello tanto statale quanto locale, di gruppi di vigilantes i quali compiono regolarmente esecuzioni sommarie e arresti illegali ed infliggono torture e trattamenti crudeli, inumani e degradanti ai danni di presunti criminali" aggiunge Amnesty International.
La violenza intercomunale, probabilmente la piu' grave fonte di violazioni dei diritti umani in Nigeria, ha causato oltre 5000 morti negli ultimi tre anni e rimane a sua volta un fenomeno difficile da affrontare. In diversi casi il governo ha inviato l'esercito per favorire la cessazione di questi conflitti, ma in due circostanze l'intervento dei militari ha comportato un uso eccessivo della forza ed il ricorso ad esecuzioni extragiudiziali: nel novembre 1999 a Odi (Stato di Bayelsa), i soldati hanno vendicato l'uccisione di 12 poliziotti assassinando oltre 250 persone, mentre in alcuni villaggi dello Stato di Benue, nell'ottobre 2001, hanno risposto all'uccisione di 19 colleghi uccidendo 200 persone. Il presidente Obasanjo, nel marzo 2001, ha dichiarato di non avere "alcuna scusa da presentare" per la distruzione della città di Odi.
"L'uccisione di poliziotti e soldati è un grave crimine e i responsabili devono essere portati di fronte alla giustizia. Ma nulla può giustificare il disprezzo nei confronti della vita umana mostrato dalle
forze armate in queste due occasioni" commenta l'organizzazione.
Amnesty International chiede al governo federale di assicurare che coloro che hanno il compito di far rispettare la legge non ricorrano alla tortura, non sottopongano i detenuti a trattamenti crudeli,
inumani e degradanti, non compiano esecuzioni extragiudiziali e non facciano un uso eccessivo della forza letale. L'organizzazione chiede inoltre un'inchiesta per individuare i militari responsabili delle uccisioni di massa avvenute a Odi e nello Stato di Benue.
FINE DEL COMUNICATO
Roma, 18 dicembre 2002
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Egitto: Amnesty International chiede di porre fine alle torture sistematiche
Chiunque sia posto in stato di detenzione in Egitto è a rischio di tortura, ha denunciato oggi Amnesty International lanciando un proprio rapporto intitolato “Egitto: nessuna protezione? Le torture sistematiche continuano.
Le prove raccolte negli anni da Amnesty International mostrano come la tortura “nonostante sia vietata dalle leggi nazionali e dal diritto internazionale” resti diffusa e sistematica nel paese. Il rapporto presenta denunce di torture o maltrattamenti provenienti da tutti i settori della società e riguardanti bambini, donne, attivisti politici, persone arrestate nell’ambito di indagini penali o trattenute senza essere accusate di uno specifico reato. Alcune vittime di tortura sono particolarmente vulnerabili, come i rifugiati e le persone detenute a causa dell’orientamento sessuale.
Il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura, un organismo di esperti indipendenti, durante la sua 29a sessione in corso oggi e domani a Ginevra, esaminerà il rapporto periodico del governo egiziano. Ad ottobre il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti umani, un altro organismo di esperti indipendenti, aveva analizzato l’osservanza, da parte dell’Egitto, degli obblighi stabiliti dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici. Il Comitato aveva notato con
preoccupazione “la persistenza di trattamenti crudeli, inumani e degradanti ad opera degli organi dello Stato incaricati dell’applicazione della legge e in particolare dei servizi di sicurezza, il cui ricorso a tali pratiche sembra essere sistematico”.
Amnesty International continua a ricevere numerose denunce di tortura da persone accusate di far parte di organizzazioni politiche, compresi da un lato gli organismi non governativi e dall’altro i gruppi armati.
Nella stragrande maggioranza dei casi le torture hanno avuto luogo mentre i detenuti si trovavano
negli uffici dei Servizi per la sicurezza dello stato, senza poter comunicare con familiari o avvocati.
Nei mesi di aprile e maggio 2002, centinaia di persone sono state arrestate per la loro presunta
appartenenza al Partito della liberazione islamica, che è al bando in Egitto. Molte di esse sono state
trattenute per settimane, senza poter comunicare con familiari o avvocati. Amnesty International ha appreso che alcune di esse sono state sottoposte a scariche elettriche e ad altre forme di tortura o
maltrattamento.
“Le garanzie esistenti nei confronti dei detenuti sono insufficienti, vengono spesso violate e sono calpestate dalla legislazione di emergenza e dalla Legge 97 del 1992 sulla lotta al terrorismo. In pratica, non proteggono i detenuti da gravi violazioni dei diritti umani” - ha osservato Amnesty International.
Tra i metodi più comuni di tortura vi sono le scariche elettriche, i pestaggi e le sospensioni per i polsi o le caviglie in posizione contorta ad una spranga orizzontale. Le vittime riferiscono dell’impiego di una varietà di attrezzature, tra cui i dispositivi elettrici, le fruste e gli strumenti usati per la falaka (percosse sulle piante dei piedi).
In recenti processi a carico di agenti di polizia, sono state presentate in tribunale prove medico-legali che i segni trovati sui corpi di detenuti morti mentre erano nelle mani della polizia, erano compatibili con le tracce lasciate da scariche elettriche e da altre forme di tortura.
Nonostante l’esistenza di prove schiaccianti sulla diffusione e la sistematicità della tortura e dei
maltrattamenti, le autorità egiziane ammettono solo “casi occasionali di abuso dei diritti umani”. I processi relativi a denunce di tortura sono quasi sempre limitati a casi di criminalità comune in cui la vittima è deceduta. Nella maggior parte dei casi i responsabili non vengono portati di fronte alla giustizia, poiché le autorità non conducono indagini immediate, esaurienti ed imparziali.
Umm Hashim Abu al-Izz, una giovane attrice, è stata arrestata l’8 febbraio 2002 al Cairo dopo che la polizia aveva fermato il taxi sul quale viaggiava e l’aveva trovata sprovvista di documenti. Insieme all’autista e ad un altro passeggero, è stata portata alla stazione di polizia di Agouza. E’ stata presa a calci e pugni e, quando ha protestato per gli insulti di un poliziotto, è stata percossa brutalmente a colpi di cintura sul viso e su altre parti del corpo. In seguito ha sporto
denuncia per tortura. E’ stata interrogata solo tre settimane dopo, quando i lividi sul suo corpo avevano iniziato a sparire. Non le è mai stato permesso di ricorrere ad un consulto medico legale. “Cio’ che mi è successo è qualcosa che non avrei mai potuto immaginare” - ha raccontato ad Amnesty International.
L’esperienza di Umm Hashim Abu al-Izz non è eccezionale. Nell’ultimo decennio le autorità egiziane non hanno intrapreso azioni adeguate su centinaia o migliaia di casi di tortura. Di solito, dopo aver sporto denuncia, le vittime e i loro parenti ed avvocati rimangono in attesa di sviluppi per settimane, mesi o, in molti casi, per anni. Quando le indagini vengono aperte, possono andare avanti per anni e raramente terminano con un processo. Sebbene il numero di decessi in custodia resti
drammaticamente elevato, solo pochi agenti di polizia sono stati imprigionati in relazione a tali episodi. “Il governo egiziano deve agire in maniera decisiva per porre fine alla tortura, mediante l’adozione delle misure pratiche e legali necessarie ad assicurare l’effettiva attuazione di tutte le norme dei trattati sui diritti umani, soprattutto del Patto internazionale sui diritti civili e politici e della Convenzione contro la tortura” - ha affermato Amnesty International.
In particolare, Amnesty International chiede alle autorità egiziane di avviare indagini tempestive,
esaurienti ed imparziali su tutte le denunce di tortura; assicurare che tutti i responsabili di casi di tortura o maltrattamenti siano sottoposti a giustizia; abolire la detenzione senza contatti con familiari o avvocati; rafforzare le garanzie per le persone in stato di detenzione; risarcire e riabilitare le vittime di tortura; assicurare che sia le leggi che le pratiche siano pienamente conformi agli obblighi internazionali assunti dall’Egitto in materia di diritti umani.
FINE DEL COMUNICATO
Roma, 13 novembre 2002
Il rapporto Egitto: nessuna protezione ? le torture
sistematiche continuano è disponibile presso il sito
Internet di Amnesty International all’indirizzo: www.amnesty.org
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Amnesty International sul rilascio dei prigionieri politici in Iraq: passo positivo, ma c’è ancora molto da fare
In una lettera trasmessa oggi al governo iracheno, Amnesty International ha espresso apprezzamento per la notizia del rilascio dei prigionieri politici, ma ha chiesto di essere urgentemente informata sui nomi di coloro che hanno beneficiato dell'amnistia generale.
Il 20 ottobre, il Consiglio del comando rivoluzionario - il più alto organo esecutivo del paese - ha reso noto un decreto firmato dal presidente Saddam Hussein che dispone un'amnistia generale per tutti i prigionieri politici entro le successive 48 ore.  La televisione irachena ha poi trasmesso le immagini della scarcerazione di decine di detenuti dalla prigione Abu Ghraib di Baghdad. L'amnistia riguarda anche i condannati a morte – compresi quelli condannati in contumacia o all'estero - ed esclude i colpevoli di spionaggio nei confronti di un paese straniero. Tra i detenuti rilasciati figurano anche cittadini di nazionalità araba, tra cui ottanta giordani.
Nel corso degli anni, Amnesty International ha documentato gravi violazioni dei diritti umani, commesse su vastissima scala nei confronti di tutti i settori della società irachena, ad opera delle forze armate, dei servizi di sicurezza e dei servizi segreti: "sparizione" di migliaia di persone,
uso massiccio della pena di morte, esecuzioni extragiudiziali, arresti arbitrari, detenzione a lungo termine senza accusa né processo, processi segreti e fortemente irregolari, tortura sistematica nei confronti dei presunti oppositori, sanzioni giudiziarie equivalenti a tortura o a punizione crudele inumana o degradante, detenzione di prigionieri per motivi di opinione, espulsioni forzate.
La maggior parte delle vittime di queste violazioni è costituita da presunti oppositori politici, tra cui elementi delle forze armate e dei servizi di sicurezza in servizio o in pensione, familiari di attivisti dell'opposizione all'estero, esponenti di minoranze quali in particolare curdi e musulmani sciiti.
Nella sua lettera, Amnesty International ha chiesto alle autorità di Baghdad di chiarire urgentemente la sorte di migliaia di persone "scomparse" negli anni '80 e all'indomani della guerra del Golfo del 1991, tra cui oltre 600 cittadini kuwaitiani e di altra nazionalità, nonché di almeno 106 studenti
e religiosi sciiti arrestati nella città di al-Najaf, nel sud del paese.
Amnesty International ha infine chiesto al governo iracheno di abolire in via prioritaria tutte le leggi e le pratiche che hanno causato violazioni dei diritti umani di massa nel paese.
Fine del Comunicato
Roma, 21 ottobre 2002

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Nigeria, 6 Luglio 2002
Cinque ragazzi uccisi in un  campus universitario per violenze legate a “sette”(Brief, General)
Cinque giovani studenti sono stati bruciati vivi all'interno di un campus universitario in Nigeria.
Il drammatico episodio è avvenuto all'interno del Politecnico Federale di Owo, nello Stato meridionale di Ondo.
Stando a quanto ricostruito dalla polizia, un gruppo di uomini appartenenti ad una setta segreta sarebbe entrato senza permesso nel campus. Ne è nato uno scontro con altri giovani appartenenti ad una gang opposta. Le forze dell'ordine hanno informato che per evitare possibili vendette la struttura universitaria è stata temporaneamente chiusa. Si tratta dell'ultimo episodio di una catena che vede i campus nigeriani sempre più spesso teatro di analoghe violenze. Le tensioni sarebbero da ricondurre alle lotte tra fazioni che si svolgono all'ombra di culti, che uniscono magia nera, violenza ordinaria e dinamiche da bande giovanili. Nelle scorse settimane, nell'Università della Nigeria (Stato di Enugu), gli scontri tra due sette avevano provocato un vero e proprio bagno di sangue, costato la vita a oltre 20 persone.
Nel corso degli anni Novanta, le vittime delle feroci lotte tra fazioni rivali sono state centinaia, all'interno degli oltre cento istituti superiori e universitari del Paese. Nel sud della Nigeria, identificata come l'area "calda" del pericoloso fenomeno, le frequenti uccisioni di studenti hanno seminato il terrore negli istituti scolastici, obbligando le autorità a chiudere alcuni campus. Anche il governo sta cercando di correre ai ripari.
Il presidente Olusegun Obasanjo, che nel 1999 ha approvato una legge che vieta questo forme di 'culto', ha ribadito l'intenzione del suo esecutivo di sradicare la pratica delle sette dai collegi universitari.

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Il sacrificio dei Diritti Umani sull’altare della sicurezza
In Bielorussia, una normativa approvata lo scorso dicembre autorizza la perquisizione di edifici senza l’approvazione dell’autorità giudiziaria. Il sistema repressivo dell’Egitto - caratterizzato da tortura e processi iniqui - è stato suggerito dallo stesso governo del Cairo come modello efficace di lotta al terrorismo per i paesi occidentali. In Pakistan, gli emendamenti alla legge sulla sicurezza nazionale mettono a rischio l’indipendenza della magistratura e stabiliscono la partecipazione di personale militare alle giurie chiamate ad occuparsi di processi per “terrorismo”. L’atto sull’antiterrorismo introdotto lo scorso anno nel Regno Unito consente la detenzione a tempo indeterminato, senza accusa né processo, di cittadini stranieri sospettati di collusione con il terrorismo internazionale. L’ordinanza sulla sicurezza e l’ordine pubblico nello Zimbabwe, entrata in vigore a gennaio, vieta le manifestazioni e criminalizza chiunque esprima critiche nei confronti della polizia, delle forze armate o del presidente Mugabe. Sono, questi, solo alcuni degli episodi più significativi per raccontare, senza troppi giri di parole, in quale mondo viviamo ad un anno di distanza dall’immane tragedia dell’11 settembre 2001. Promulgando nuove leggi e facendo ricorso alla vecchia brutalità, in tante circostanze i governi - a partire da quello degli USA, dove ora un sistema di “giustizia di seconda classe” si fonda su detenzioni arbitrarie e tribunali militari - hanno finito per sacrificare i diritti umani sull’altare della sicurezza e dell’antiterrorismo. L’obiettivo della “sicurezza a tutti i costi” si è trasformato in un pretesto, quasi una forma di legittimazione preventiva per colpire gli oppositori e le minoranze e giustificare nuove forme di repressione e di riduzione delle libertà fondamentali. A ben pensarci, non c’è nulla di così nuovo nel comportamento di governi che, esposti a situazioni di particolare rischio ed emergenza, fanno ricorso a misure straordinarie e si appellano alla dottrina della sicurezza nazionale per limitare, sia pure in maniera provvisoria, l’esercizio di taluni diritti fondamentali. La vera novità che abbiamo di fronte sta nella diffusione di un paradigma inedito, che considera apertamente i diritti umani come un ostacolo alla sicurezza e ritiene di poter sconfiggere il “terrorismo” con i soli strumenti della repressione: intervenendo quindi esclusivamente sui sintomi del fenomeno e non affrontando la radice vera dei problemi di ingiustizia e privazione che, su scala planetaria, rappresentano un terreno fertile per i disordini e la violenza.
Inutile dire che questo approccio si è rivelato fallimentare da ogni punto di vista. Innanzitutto perchè a promuoverlo sono soprattutto governi che hanno ‘approfittato’ del clima internazionale per risolvere alcune spinose questioni interne: la Cina che ha accentuato la persecuzione dei gruppi separatisti in Tibet, Mongolia interna e Xinjiang e la Russia che ha ottenuto un lasciapassare per intensificare la campagna militare e repressiva in Cecenia.
Il pretesto della sicurezza internazionale ha fornito la più efficace delle coperture ai paesi che si sono raccolti intorno all’alleanza globale contro il terrorismo guidata dagli USA e ha prodotto nell’opinione pubblica appariscenti fenomeni di ‘indignazione a singhiozzo’: il mondo intero si è scandalizzato per l’imposizione del burqa, cui sono state costrette per lunghi anni le donne afgane (in verità, non solo durante il regime dei talebani, e su questo quanti rapporti di Amnesty International sono passati inosservati!), eppure nessuno solleva il problema dei diritti delle donne in un paese come l’Arabia Saudita o a rischio di lapidazione in diversi altri paesi; l’Iraq di Saddam Hussein è indicato oggi come il piu sanguinario dei regimi tanto che è in corso un intenso dibattito per valutare l’opportunità di un’operazione militare, ma gli abusi e la pressoché completa assenza di libertà e diritti politici in paesi alleati (e mercati) come la Cina non sembrano oggetto di preoccupazioni così diffuse. Il paradigma della sicurezza che prevale a livello internazionale non solleva dubbi solo dal punto di vista morale e giuridico, ma anche da quello della sua concreta efficacia.
Siamo davvero convinti che un mondo in cui a miliardi di persone sono negati i fondamentali diritti umani, primo tra tutti quello alla stessa sopravvivenza, possa essere reso più sicuro con leggi repressive, l’uso della tortura e l’imprigionamento di qualche migliaio di stranieri sospetti? L’anno iniziato l’11 settembre 2001 si è aperto con gli attacchi negli Stati Uniti e si è chiuso con il recente attentato in Afghanistan contro il presidente Karzai, l’alba e il tramonto di una giornata del mondo attraversata ogni ora da più violenza e più terrore: non basta questo a dimostrare che le misure repressive e liberticide adottate fino ad oggi dai governi non sono affatto servite a garantire maggiore sicurezza per tutti?
Ciò di cui abbiamo davvero bisogno, soprattutto da un anno a questa parte, non è tanto una guerra contro il terrorismo ma una mobilitazione globale a favore dei diritti umani. L’11 settembre 2002 è una data simbolica che può aiutare a ricordarcelo!
Roma, 10 settembre 2002

 USA/Iraq: Non nel nome dei diritti umani
Nel discorso tenuto ieri presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il Presidente George Bush ha citato le gravi violazioni dei diritti umani perpetrate dal governo iracheno nei confronti della popolazione. Il documento informativo distribuito alla stampa contiene vari riferimenti ai rapporti sulla situazione dei diritti umani in Iraq pubblicati negli anni da Amnesty International.
“Ancora una volta, la situazione dei diritti umani di un paese è usata selettivamente per legittimare azioni militari”, ha dichiarato Amnesty International.
“Gli Stati Uniti e altri governi occidentali non hanno preso in considerazione i rapporti di Amnesty International sulle diffuse violazioni dei diritti umani in Iraq durante la guerra Iran-Iraq e hanno ignorato la campagna di Amnesty International per le migliaia di civili curdi uccisi negli attacchi a Halabja nel 1988”.
“I diritti umani della popolazione irachena, come diretta conseguenza di ogni potenziale azione militare, non sono al centro del crescente dibattito sull’eventualità di usare la forza militare contro l’Iraq”.
“La vita, la sicurezza e l’incolumità della popolazione civile devono rappresentare il primo obiettivo in ogni azione intrapresa per risolvere l’attuale crisi umanitaria e dei diritti umani. L’esperienza del precedente intervento militare nel Golfo ha mostrato come i civili divengano, troppo spesso, le vittime accettabili di un conflitto”.
“Nell’eventualità di un’azione militare, c’è la seria possibilità di causare migliaia di rifugiati e sfollati. Una crisi umanitaria può scaturire dalla difficoltà o impossibilità di trasportare i generi di sussistenza minimi causando carenza di cibo, di medicinali e distruzione di infrastrutture civili e istituzioni”.
Roma, 13 settembre 2002
Fine del Comunicato


Amnesty International al Governo Eritreo:  Liberate Oppositori e Giornalisti
In un rapporto diffuso il 18 settembre 2002, intitolato Eritrea: detenzione arbitraria di oppositori e giornalisti, Amnesty International ha rivolto un appello alle autorità di Asmara affinché pongano fine, immediatamente e senza condizioni, alla detenzione illegale di decine di prigionieri di coscienza e difensori dei diritti umani.
“Con queste detenzioni l’Eritrea viola i trattati regionali e internazionali in materia di diritti umani che il Governo ha ratificato solo di recente. Esse inoltre rafforzano il clima di impunità sull’operato delle autorità”, ha dichiarato Amnesty International.
Giornalisti della stampa indipendente e varie personalità che hanno espresso critiche nei confronti del governo si trovano in stato di detenzione segreta, senza poter comunicare con la famiglia e con gli avvocati ormai da un anno, da quando cioè - nel settembre 2001 - le autorità hanno iniziato improvvisamente a reprimere il crescente dissenso. Fra i detenuti, figurano l’ex Vicepresidente Mahmoud Ahmed Sceriffo, l’ex ministro degli Esteri Haile Woldetensae, Aster Fissehatsion - un importante leader del Fronte popolare di liberazione eritreo - nonché altre personalità che svolsero un ruolo di primo piano nel raggiungimento dell’indipendenza nel 1991.
Nel maggio 2001 un gruppo dissidente di 15 esponenti del partito al governo (il cosiddetto “Gruppo dei 15”) aveva criticato pubblicamente il Presidente Issayas Afewerki ed aveva invocato “il primato della legge e della giustizia, attraverso metodi pacifici e Legali”. Quattro mesi dopo, il 18 settembre, le forze di sicurezza avevano arrestato 11 dei 15 oppositori: altri tre erano sfuggiti all’arresto perché all’estero e un quarto aveva nel frattempo ritirato il proprio supporto al gruppo. Per il governo, gli 11 sono colpevoli di “reati contro la sovranità”, la sicurezza e la pace della nazione e si sono resi responsabili di tradimento durante la guerra del 1998-2000 con l’Etiopia.
A giudizio di Amnesty International, invece, si tratta di prigionieri di coscienza arrestati unicamente per la loro opposizione pacifica al governo. Sempre il 18 settembre 2001, il governo aveva fatto chiudere i quotidiani di proprietà privata e nei gio

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12 marzo 2002
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