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Il Meridione e ''l'economia della paura'': gli effetti del terrorismo sui consumi

08 ottobre 2001
Può oggi risultare opportuno, dal punto di vista dell'economista, prevedere gli effetti che potrebbero scaturire sulla produzione e sul consumo da una "guerra", secondo il significato convenzionale attribuito a questo termine, ovvero dal persistere di un clima caratterizzato da "ansia per il terrorismo".

L'esperienza del passato ci aiuta a descrivere bene il primo caso previsto. Paradossalmente, la guerra aiuta l'economia perché mobilita risorse con l'obiettivo di una vittoria. Parliamo ovviamente di una guerra vinta. Che, appena dichiarata ed intrapresa, determina preoccupazione e caduta di fiducia. Ma, una volta conclusa con successo, suscita entusiasmo ed euforia. In sintesi, nel caso di una guerra che si presume combattuta con esito favorevole il consumatore si preoccupa nel breve periodo, con priorità, della sua sicurezza.

Poi, via via che ci si avvicina al trionfo finale, subentra, potenziato, il bisogno ad esempio di soddisfare al meglio il desiderio di un auto o di una casa nuova. Con un reddito complessivo che la spesa statale nell'industria bellica, seppur ovviamente penalizzato dai costi che la guerra implica, comunque tende a moltiplicarsi.
Nel secondo caso non ci si può avvalere di esperienze significative sicché l'analisi procede un po' a tentoni.
Uno scenario in cui prevalga l'"ansia da terrorismo" deprime i consumi, induce a rinviarli, determina comportamenti cosidetti "wait and see" ("aspetta e vedi") esiziali per lo sviluppo.

Qualcuno già teorizza l'avvento dell'"economia della paura", nella quale appunto aumenta l'esigenza di sicurezza e diminuisce la voglia di rischio. Con minori profitti per chi appunto produce "beni di sicurezza" e caduta di profitti nei settori (turismo, ad esempio) la cui offerta, si ritiene, contiene un grado di rischio. I futurologi già prevedono un "boom" per le video-conferenze a distanza che dovrebbero sostituire i mega-incontri congressuali, una composizione diversa del risparmio a scapito di azioni e fondi, la propensione a richiedere una maggiore protezione complessiva da parte dello Stato anche a costo di dover sacrificare, per pagare le relative imposte che dovrebbero finanziarla, altri consumi.

Sicurezza e protezione significano anche l'abbandono del concetto di "Stato minimo", anzi una rivoluzione dello Stato come soggetto che solo può garantire e condurre le lotte al terrorismo magari imponendo sacrifici alle libertà individuali. Una sorta di rivoluzione nell'epoca della globalizzazione. Ora, un modello che sembra profilarsi è quello dell'austerità. Un modello, per scendere di livello nell'argomentazione, che al Mezzogiorno non ha mai portato fortuna. Se il Sud si confronta con un sistema economico nazionale condizionato dalla paura, inevitabilmente questo vorrà dire relazionarsi con un sistema più povero o che si sente più povero.
E che quindi tende a redistribuire meno.

Fonte: La Sicilia

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08 ottobre 2001
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