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Per superare i monopoli. L'open source cresce anche nei campi: dal software alla biologia

Una ricerca a tutto campo, libera da costrizioni e da poter condividere

17 novembre 2005

L'open source cresce anche nei campi
di  Paolo Conti (Il Sole24Ore)

Per circa 10mila anni gli esseri umani hanno incrociato le piante che trovavano in natura per trasformarle in alimenti più sani, nutrienti, saporiti. Era un processo lento e faticoso, che i contadini portavano avanti di generazione in generazione.
Poi, all'improvviso, la rivoluzione. Negli anni Cinquanta Watson e Crick svelarono i segreti del genoma e ben presto fu chiaro che il Dna delle piante poteva essere modificato in laboratorio, ottenendo in pochi mesi risultati che i contadini impiegavano decenni a produrre.
Eppure oggi gli organismi modificati geneticamente sono rifiutati da un numero crescente di governi e consumatori, preoccupati in parte delle implicazioni imprevedibili che questa tecnologia di per sé formidabile potrebbe produrre sulla nostra salute e sull'ecosistema che ci ospita, in parte dal potere crescente delle multinazionali biotech. Un ostracismo globale che ha spinto (e spinge tuttora) genetisti e biologi, ma anche intellettuali e innovatori, a esplorare strade alternative.

Richard Jefferson è un ex musicista americano che vive a Melbourne, in Australia. Quindici anni fa ha fondato il Cambia (Center for the application of molecular biology to international agricolture), un'associazione senza fini di lucro finanziata da grandi enti pubblici internazionali (fra i quali la Fao) che si propone di applicare alla biologia gli stessi meccanismi che gli ideologi dell'open source hanno applicato al software.
Jefferson ha scoperto un importante gene chiamato Gus, che è in grado di modificare le piante, migliorandole. L'ha perfezionato e brevettato. Poi l'ha distribuito gratuitamente alle università e ai centri di ricerca non profit di tutto il mondo, facendolo invece pagare caro alle multinazionali. Jefferson non è contrario agli Ogm, ma crede che sia sufficiente modificare la struttura genetica degli organismi vegetali, senza inserire geni provenienti da altri organismi. Crede inoltre che «qualsiasi tecnologia innovativa debba essere di dominio pubblico, e non di proprietà delle grandi aziende del settore».

L'associazione viene spontanea: Jefferson sta a Linus Thorvald come la Monsanto sta alla Microsoft.

La genetista americana Susan McCouch ha scelto invece un approccio più radicale. Vent'anni fa questa scienziata della Cornell University creò una mappa dettagliata dei 40mila geni che compongono il Dna del riso e si rese conto che per migliorarlo poteva evitare di usare l'ingegneria genetica. Conoscendo i geni del riso poteva capire con precisione quali specie selvatiche avrebbero potuto migliorare le varietà di riso usato in agricoltura, riducendo drasticamente il numero di tentativi rispetto al passato. Poteva anche risvegliare le caratteristiche nascoste in alcune varietà, facendo sì che all'occorrenza tornassero a "funzionare". Una tecnica, quella impiegata dalla McCouch, chiamata smart breeding, oggi è molto usata dai genetisti di tutto il mondo.
La chiave dello smart breeding è il marker del Dna, un contrassegno relativo a una particolare porzione del cromosoma che consente ai ricercatori di individuare esclusivamente il gene responsabile di una specifica caratteristica. «Lo smart breeding non è alternativo all'ingegneria genetica - spiega Roberto Bollini, ricercatore dell'Istituto di biologia e biotecnologia agraria del Cnr -. Funziona soltanto quando il gene interessato si trova in una specie biologicamente compatibile con quella che si vuole modificare». Eppure Bollini, che pur non è contrario agli Ogm, ha scelto proprio lo smart breeding per perseguire il suo obiettivo: creare un fagiolo che contenga una quantità di acido fitico inferiore al normale (l'acido fitico accumula fosfati e può provocare gravi carenze alimentari). «Avremmo potuto procedere con l'ingegneria genetica - spiega - ma questo ci avrebbe dato vita a un prodotto che l'opinione pubblica non avrebbe accettato».

Lo smart breeding unisce il meglio della genetica e delle tecniche agricole tradizionali. Non modifica artificialmente il Dna, ma al tempo stesso produce risultati paragonabili agli Ogm. Ne è convinto, fra gli altri, Robert Goodman, che è stato il direttore scientifico della Calgene (azienda specializzata in biotech oggi di proprietà della Monsanto), ma che adesso dirige un'organizzazione americana, la McKnight Foundation, che si occupa di promuovere lo sviluppo della ricerca genetica nei Paesi in via di sviluppo. Goodman crede che le nuove tecniche di incrocio "intelligente" renderanno presto obsoleti gli Ogm. E non è il solo. In un articolo apparso sul mensile americano «Wired», lo scrittore Richard Manning ricorda che sono moltissimi gli scienziati che usano lo smart breeding in alternativa alle tecnologie genetiche invasive.
Qualche esempio. Il ricercatore cinese Deng Qiyun ha usato i marker molecolari per incrociare varietà di riso, ottenendo un aumento del 30% nei raccolti. Anche in India, un genetista di Bangalore di nome H.E. Shashidhar ha creato una varietà di riso molto fertile, sempre incrociando specie diverse. Sono in molti, anche in Italia, a pensare che sarà la genetica stessa a rendere obsoleto l'attuale dibattito sugli Ogm. Ma per questo sarà necessario investire in ricerca. E nella mappa degli innovatori dell'agricoltura intelligente l'Italia occupa, ancora una volta, uno spazio marginale.

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17 novembre 2005
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