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Trapist - Etnafest 2006 (Musica)

24 gennaio 2006

TRAPIST
Sabato 3 giugno, ore 21,15 - In coproduzione con Zo Centro Culture Contemporanee (intero: € 8,00 - ridotto: € 6,00)

Martin Brandlmayr (batteria), Martin Siewert (chitarre, electronics), Joe Williamson (contrabbasso)

Improvvisazione, rielaborazioni elettroniche, minimalismo rock
''Se Morton Feldman, John Cage e David Tudor avessero formato una rock-band, suonerebbe più o meno come Trapist''. È divertente questa intuizione di Peter Marsh (Bbc) per definire ciò che evidentemente sfugge alle etichette.
Si pensa dunque a una miscela di improvvisazione quieta, commentata da rielaborazioni elettroniche, ma anche ad un minimalismo rock.
Trapist è in vita dal 2000 e sintetizza tutta una serie di sperimentazioni realizzate dalla scena viennese negli ultimi tempi. Una scena vivacissima, aperta a molteplici interscambi sonori, che punta soprattutto a valorizzare il rapporto tra acustica ed elettronica.
Martin Brandlmayr eredita il linguaggio percussivo di scuola nord-europea, dandone un'interpretazione molto personale, come dimostra anche la sua attività nel trio Radian.
Martin Siewert suona sia la chitarra acustica che elettrica, influenzato sia dal folk americano (vedi John Fahey) che dalla psichedelia britannica, fino a condividere la radicalità degli improvvisatori contemporanei: egli ha infatti collaborato, tra gli altri, con Wayne Horvitz, Ken Vandermark, Elliott Sharp, Christian Fennesz, Tony Buck.
Joe Williamson, canadese di Vancouver, dopo aver studiato a Montreal si è trasferito in Europa nel 1992, frequentando Amsterdam, Berlino, Londra e accumulando una serie di collaborazioni con musicisti come Han Bennink, Ab Baars, Evan Parker, Peggy Lee, Jon Rose ecc.
Il dialogo paritario tra strumenti acustici e manipolazione elettronica in tempo reale è il tratto distintivo di Trapist, che si distinguono da esperienze affini in virtù di una nuova sensibilità, di un'inedita capacità di mettere in comunicazione suoni distanti tra loro. C'è un attenzione particolare per la dimensione ''spaziale'' delle esposizioni sonore, che suggerisce un flusso lento e visionario del processo improvvisativo, dove subitanei ''scarti'' poetici fanno breccia e animano il suo montaggio progressivo.

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24 gennaio 2006
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