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La fiaccola olimpica è passata per la Tanzania (unica tappa africana) indenne e molto rapidamente

14 aprile 2008

E' passata indenne e molto rapidamente. La fiaccola olimpica ieri in Africa ha compiuto una staffetta di soli cinque chilometri per le strade di Dar es Salaam, capitale economica della Tanzania. Appena mezz'ora di percorso nelle mani di un'ottantina di tedofori, applaudita da migliaia di persone. La pioggia battente ha accompagnato il passaggio della torcia ed è stata la ragione ufficiale addotta dalle autorità per la riduzione del percorso da 25 a 5 chilometri. Sebbene non fosse stata annunciata alcuna manifestazione di protesta in favore del Tibet come nelle precedenti tappe europee ed americane, la presenza della polizia era massiccia e il percorso sorvegliato dall'alto dagli elicotteri. Unico neo, l'assenza, annunciata tre giorni fa, della più celebre tedofora che avrebbe dovuto partecipare alla staffetta, il Premio Nobel per la pace 2004, la kenyana Wangari Maathai. "Sì, mi sono ritirata. Ho deciso di mostrarmi solidale con altre persone sulle questioni dei diritti umani nella regione sudanese del Darfur, in Tibet e in Birmania", aveva detto la premio Nobel nei giorni scorsi.

Il via alla cerimonia è stato dato dal vicepresidente della Tanzania, Mohamed Shein che ha acceso la torcia per poi consegnarla nelle mani del ministro dell'Unione tanzaniana, Seif Khatib. "La Tanzania sostiene senza riserve i Giochi olimpici di Pechino", ha assicurato il vicepresidente, che faceva le veci del capo di stato, Jakaya Kikwete, in viaggio ufficiale in Cina. "Sono fiero che la Tanzania sia l'unico paese africano ad accogliere la fiaccola. E' un'opportunità eccezionale per il nostro Paese".
Ultima tedofora, la responsabile dell'organizzazione delle Nazioni unite per le abitazioni (Habitat), Anna Tibaijuka, si è detta "molto fiera" del passaggio della fiamma nel suo paese. "Si tratta di un momento di solidarietà per la Tanzania, l'Africa e il mondo intero, nello spirito delle Olimpiadi", ha dichiarato alla fine della corsa, che si è conclusa in uno stadio costruito dalla Cina.
La torcia passerà oggi da Mascate, capitale del Sultanato dell'Oman, unica tappa della fiaccola nel mondo arabo.

Ieri da Seattle, una delle tappe del suo viaggio negli Stati Uniti, il Dalai Lama ha ribadito che se le violenze in Tibet dovrebbero divenatre ancora più gravi si dimetterà. "Se la violenza si aggravasse al punto da non poter essere più controllata - ha detto il leader spirituale dei tibetani -, la mia unica opzone sarebbe quella di dimettermi. Se la maggioranza della gente si macchierà di nuove violenze allora lascerò". Il Dalai Lama è favorevole solo a proteste non violente nei confronti della fiaccola olimpica e contro la repressione in Tibet. "La violenza - ha detto - è totalmente sbagliata". L'obiettivo che si auspica il leader spirituale è quello di giungere all'autonomia per il Tibet, ma avverte: "E' sempre più difficile adesso fare altre concessioni alla Cina oltre a quelle già fatte".
Il problema del Tibet non è "un problema etnico, religioso o di diritti umani" ma esclusivamente "un problema di difesa dell'unità della Nazione o di divisione della madrepatria". Queste le parole del presidente cinese Hu Jintao sulla crisi del Tibet, le prime da quando, il 10 marzo scorso, è iniziata la rivolta dei monaci arancioni. Hu Jintao ha definito il problema come "il nostro conflitto con la cricca del Dalai Lama". Il presidente cinese ha sostenuto che il dialogo è fermo per volontà non della Cina ma dello stesso Dalai Lama. "La barriera ai contatti e ai colloqui non si trova dalla parte nostra - ha detto il leader cinese - ma dalla parte del Dalai Lama. Se il Dalai Lama ha la sincerità necessaria ai colloqui, allora deve metterla in pratica". Hu Jintao ha aggiunto che la Cina è pronta ad incontrare il Dalai Lama se "desisterà dal cercare di dividere la madrepatria" e di "sabotare" le Olimpiadi di Pechino.

E nonstante sia stata grande la solidarietà manifestata (al meno a parole) nei confronti del Tibet dall'Europa e dalla maggior parte dei Paesi occidentali, qualcuno vede dietro a questa grande sommossa una sorta di ''progrom anticinese''...

Gianni Vattimo e Domenico Losurdo: appello contro i monaci tibetani
di Gianna Fregonara (Corriere.it, 10 aprile 2008)

E se i disordini di Lhasa del 14 marzo non fossero stati altro che «un pogrom anticinese»? Una «caccia all'uomo finita con donne, bambini e vecchi dati alle fiamme»? E se la stampa internazionale «quella europea in particolare» fosse impegnata in «una campagna anti-cinese dai connotati razzisti», degna continuazione del vecchio «piano imperialista contro Pechino e della guerra dell'Oppio?».
A pensarlo sono due intellettuali di sinistra: il filosofo torinese del pensiero debole Gianni Vattimo e lo storico dell'Università di Urbino Domenico Losurdo, che sulla Cina moderna ha scritto più di un libro. Nel giorno in cui Gordon Brown annuncia il proprio boicottaggio politico delle cerimonie olimpiche, Losurdo si è incollato alla sua posta elettronica per lanciare un appello agli altri intellettuali italiani affinché si riveda l'interpretazione «troppo squilibrata» a favore dei monaci di quanto sta succedendo in questi mesi pre-olimpici dentro i confini del Tibet. Finora l'unico che ha risposto con interesse alla chiamata da Urbino è stato Gianni Vattimo, che ha dato l'ok alla bozza di Losurdo: «Sì, io firmo».

Caccia all'Uomo - A sostegno della loro tesi, finora del tutto minoritaria, i due professori - Losurdo è considerato vicino all'area dell'Ernesto, la minoranza di Rifondazione comunista, Vattimo, già europarlamentare Ds, poi passato al partito dei comunisti italiani di Diliberto è ora approdato al marxismo tout court - portano anche foto, reportage di giornalisti stranieri, testimonianze di turisti che erano a Lhasa in quei giorni e «video della tv cinese, censurati in Italia, ma che - spiega Losurdo - sono facilmente scaricabili da internet»: «La stampa europea e quella italiana in particolare hanno accettato la versione dei monaci, e solo qua e là a spizzichi e bocconi si può leggere qualche informazione corretta sulla selvaggia caccia all'uomo di quei giorni in cui la polizia cinese fu chiamata ad intervenire troppo tardi, quando il più era già avvenuto».
Riportare dunque all'ordine del giorno anche la vulgata cinese è la missione che i due intellettuali si sono proposti e per la quale sono al lavoro, limando il testo dell'appello da proporre ai loro colleghi, ma anche ai parlamentari e all'opinione pubblica. Una difesa vera e propria della Cina «dall'attacco occidentale»: «Prima l'indipendenza mascherata da autonomia del Tibet - protesta Losurdo - del Grande Tibet, poi della Mongolia interna e infine della Manciuria: non è altro che la versione aggiornata del piano imperialista inglese contro la Cina».

- ''Tibet, un braccio di ferro per l'identità cominciato con la Rivoluzione di Mao'' di Paolo Salom

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14 aprile 2008
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