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Le strategie terroristiche di Cosa nostra

Per Falcone un bazooka e per far paura alla gente mettere siringhe infette di Aids sulle spiagge

20 gennaio 2015

La strategia di Cosa nostra negli anni '80 era quella di "bloccare il fenomeno del pentitismo anche uccidendo i giudici". Lo ha detto Francesco Paolo Anzelmo, collaboratore di giustizia dal 1996 nel corso della sua deposizione alla quarta udienza per la strage del rapido 904 del 23 dicembre 1984.
In quegli anni "io stesso ho partecipato a vari tentativi per uccidere il giudice Giovanni Falcone, ma non fu mai possibile. Una volta pensammo di usare anche un bazooka".
Secondo Anzelmo Falcone sapeva di essere nel mirino e "prendeva sempre nuovi accorgimenti", come nel 1985 quando Cosa nostra pensò di ucciderlo con un fucile di precisione, "da distanza". Ma prima di questo "avevamo ucciso Cassarà, e per questo Falcone non percorreva più a piedi il breve tratto tra l'androne di casa e il marciapiede ma - ha proseguito Anzelmo - l'auto quando andava a prenderlo saliva direttamente sul marciapiede accostandosi all'androne stesso. E per questo non fu più possibile".
"Dall'84 all'89 ero latitante, ero a casa mia, ma nessuno mi ha mai cercato", ha continuato Anzelmo. "Si camminava tranquilli per strada, non come dopo le stragi di Falcone e Borsellino", ha detto Anzelmo ricordando la fine della guerra tra le cosche e il periodo compreso tra gli anni '80 e '90.

Prima di lui alle domande del pm Angela Pietroiusti, nel processo che vede come unico imputato Totò Riina, collegato in video conferenza dal carcere di Parma, aveva testimoniato un altro collaboratore, Calogero Ganci.
Entrambi non hanno saputo rispondere al pm quando ha chiesto loro se erano a conoscenza che l'autore della strage fu Pippo Calò, già condannato all'ergastolo negli anni '90. Anzi, Anzelmo ha riferito che nel corso di un colloquio con Calò, avvenuto nel carcere di Spoleto, dove entrambi erano detenuti con il regime del 41bis, il boss di Cosa nostra, "che non si lamentava mai degli altri ergastoli, si lamentò invece di quello per la strage del treno, perché diceva di essere innocente". "Io a lui non chiesi nulla - ha concluso Anzelmo -, se è vero o non è vero a me non interessava".
Secondo Ganci, che però ha spiegato di non partecipare direttamente alle riunioni della "commissione di Cosa nostra" se la strage fosse stata decisa dai boss "la decisione non poteva che essere presa all'interno della commissione. Se Calò decise, ma io non lo so vuol dire che aveva coperture". "Io però di questa strage - ha concluso Ganci - all'interno di Cosa nostra non ho mai sentito parlare".
La prossima udienza è fissata per martedì 27 febbraio: saranno sentiti altri collaboratori di giustizia.

Nel processo a Milano a carico di Filippo Marcello Tutino, ritenuto il basista della strage di via Palestro del 27 luglio 1993, è stato ascoltato come teste, in  videoconferenza dal carcere, il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca che ha raccontato come Cosa Nostra, dopo la strage di Capaci, aveva progettato un "cambio di strategia", colpendo il patrimonio dello Stato attraverso "un attentato alla torre di Pisa o depositando siringhe infettate dall’Aids sulle spiagge di Rimini".
Dopo l’arresto del boss Totò Riina nel 1993, secondo quanto ha riferito Brusca, imputato nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, la strategia stragista venne "portata avanti da Leoluca Bagarella". Secondo il collaboratore di giustizia, a "suggerire" il cambio di strategia, colpendo non più le istituzioni ma il patrimonio artistico italiano, sarebbe stato l’ex estremista di destra Paolo Bellini. "Sospettavamo che Bellini facesse parte dei servizi segreti, abbiamo scoperto che aveva contatti con i carabinieri", ha spiegato Brusca rispondendo alle domande del difensore di Tutino, l’avvocato Flavio Sinatra.

Oggi sono stati ascoltati come testi altri collaboratori di giustizia, come Gioacchino La Barbera e Baldassarre Di Maggio. "Bellini diceva di avere contatti con un generale dei carabinieri - ha riferito La Barbera - che in cambio dell’aiuto per recuperare alcune opere d’arte rubate in Sicilia, avrebbe potuto fare dei favori ai detenuti". Per avere "maggior potere di trattativa con lo Stato", Bellini avrebbe quindi "suggerito di dare un segnale" attraverso attentati a musei e chiese.
L’udienza è stata rinviata al prossimo 24 febbraio, quando verranno ascoltati gli ultimi testi, tra cui Paolo Bellini. Il 24 marzo è prevista invece la requisitoria del pm milanese Paolo Storari.

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20 gennaio 2015
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