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Spatuzza racconta l'"attentatuni"

Il pentito ricostruisce la storia di quelle centinaia di chili d'esplosivo: "Quello è stato terrorismo"

03 ottobre 2014

Minuzioso, fino a rasentare la pedanteria, il pentito Gaspare Spatuzza ha cominciato a ricostruire nell’aula bunker di via Uccelli di Nemi, a Milano, la storia di quelle centinaia di chili d’esplosivo che il 23 maggio del 1992 uccisero Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della loro scorta a Capaci.
Nascosto dietro un paravento, circondato da agenti del Gom (Gruppo operativo mobile) della polizia penitenziaria, Spatuzza ha esordito: "Ho fatto parte di un organizzazione mafiosa, anzi, terroristica", dalla quale decise di uscire dopo la stagione delle stragi perché "quei morti non erano nostri", e perché fu trattato male tanto da essere accusato di essersi appropriato di parte della cassa. "Ci hanno trattato come carne da macello", gli dirà un coimputato anni più tardi.

Davanti ai giudici della Corte d’assise di Caltanissetta che si occupano del processo "Capaci bis", Spatuzza, il quale capirà solo poi che quell’esplosivo serviva per "l’attentatuni", ha ricordato come parte della micidiale carica fu presa in mare, con il peschereccio di Cosimo D’Amato, esperto di pesca di frodo, a Porticello, dove recuperarono due cilindri di metallo che contenevano due bombe. Era solo parte della carica che fece saltare per aria il corteo di auto del giudice e della scorta. Poiché non ritenuto sufficiente, altro esplosivo fu fatto venire da Messina o Catania, comunque da fuori Palermo, anche se Spatuzza non ha sentito che potesse arrivare da fuori della Sicilia. Per l’attentato, infatti, furono usati due diversi tipi di esplosivo: in forma solida cominciarono a "macinarli" in un deposito in cui Spatuzza stoccava sigarette di contrabbando (così era cominciata la sua carriera nella mafia), poi in un altro. L’operazione di reperimento e di lavorazione durò circa due settimane, poi l’esplosivo passò ad altri imputati, trasportato a bordo di diverse auto. La mafia sin dal ‘91 aveva portato a Roma delle armi per colpire Falcone. Dopo le stragi di Roma, Firenze e Milano dell’estate del’93, lo stesso Spatuzza le riportò a Palermo perché fossero divise tra i componenti del mandamento di Brancaccio.

Oggi  Spatuzza proseguirà il suo racconto mentre è attesa la testimonianza di un altro pentito, Giovanbattista Ferrante, che riferirà di successivi passaggi dell’esplosivo.
Ieri, in mattinata, aveva risposto alle domande degli avvocati difensori di Antonino Giuffré il quale aveva fornito una personale versione "meritocratica" della mafia: Cosa Nostra "avendo grande disponibilità economica e non essendo in deficit come lo Stato", si avvale "sempre di persone di notevole intelligenza e scaltrezza. Non di gente di basso livello". [Corriere del Mezzogiorno]

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03 ottobre 2014
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